Gli stoici dividevano la logica in
due parti: la dialettica e la retorica. La dialettica
è la scienza di discutere rettamente, la retorica quella
del ben parlare. Già Zenone le considerava strettamente congiunte,
come mostra il gesto che egli faceva per distinguerle: con la mano
aperta indicava la retorica, con il pugno chiuso la dialettica. La differenza era soltanto formale, perché
la retorica era l'arte di esporre in un discorso più esteso il pensiero
che la dialettica esponeva in una maniera più coincisa, ma
il fine era lo stesso, il raggiungimento della verità. Anche
Cleante, dividendo la filosofia in sei parti, considerava la retorica
come una parte della filosofia, confermando che la divisione della
logica in dialettica e retorica risale senza dubbio alle origini
della Stoa. Gli stoici non dettero però
un'interpretazione originale alla retorica e ripresero quella
che Platone aveva attribuito a Socrate. La funzione e la validità
della retorica, in quanto arte del persuadere,
consistono nel fine che essa persegue, che è quello di dire la verità,
proprio anche della dialettica. «Scienza di parlare in modo appropriato»
è la definizione che Quintiliano attribuisce a Crisippo
[1]
. Pertanto gli stoici non si preoccuparono di
studiare i mezzi di persuasione, ma si mostrarono alieni dalle sottigliezze
formali. Zenone era stato negli anni giovanili
discepolo di Cratete e aveva scritto alcune
opere, come la Politeia e i Ricordi di
Cratete, nelle quali esponeva dottrine molto vicine al cinismo.
In seguito egli era stato allievo anche di Diodoro Crono,
che era particolarmente interessato a porre problemi logici e sofismi,
e ne aveva certamente subito l'influenza. Egli aveva
quindi attribuito alla dialettica il compito difensivo di rendere
inattaccabile il sistema, ricollegandosi in questo a Socrate.
Anche nell'Accademia platonica si era affermata una definizione
di scienza come «concezione che non si lascia mutare dal ragionamento»
[2]
, che metteva in rilievo
la saldezza della scienza di fronte alle argomentazioni. Così Zenone
identificava la scienza in un «abito mentale che non si lascia mutare
dal ragionamento»
[3]
, perché questa definizione rispondeva
alla esigenza che la scienza fosse inattaccabile da parte delle
argomentazioni dialettiche. Infatti in quel periodo la dottrina della conoscenza stoica
era oggetto degli attacchi di Arcesilao,
e questo rendeva gli stoici particolarmente sensibili all'interpretazione
della dialettica come capacità di porre le domande e di dare le
risposte corrette derivata dal dialèghesthai
socratico. Si deve quindi attribuire, con ogni probabilità, a Zenone
la definizione di dialettica, tramandataci
da Diogene Laerzio che la definisce come «la scienza di discutere
rettamente su argomenti nella forma di domanda e risposta». Colui
che è esperto nel domandare e nel rispondere non corre il
rischio che le proprie conoscenze possano essere mutate da argomentazioni
persuasive ο capziose, come chi non conosce le tecniche argomentative.
Ma la dialettica zenoniana
si distingue da quella socratica, perché per Zenone il domandare
e il rispondere e, in generale, il dialogare non sono uno strumento
per la ricerca della verità, bensì una conseguenza del suo possesso.
Il saggio è infallibile e non ha quindi bisogno di sottoporre a
esame le proprie convinzioni. La dialettica è dunque la scienza
che mette in grado di distruggere la forza di persuasione di qualunque tipo di argomentazione, ma se non
è usata da chi è saggio, corre il rischio di trasformarsi in eristica. Questa è la ragione per cui Aristone di Chio rifiutava la dialettica,
che per lui è come l'elleboro: se preso in grani piuttosto grossi
è purgativo, ma ridotto in polvere minuta soffoca. Anche
Arcesilao praticava con successo il metodo
dialettico della discussione delle tesi contrarie, applicandolo
contro la dottrina zenoniana. Egli dimostrava che su ogni argomento è possibile esporre ragioni opposte di egual
peso persuasivo, equipollenti, tali da condurre alla sospensione
del giudizio. Pertanto il rifiuto di Aristone
è giustificato da un significato di dialettica largamente diffuso
in questo periodo, che gli appariva strettamente connesso all'uso
di argomentazioni capziose e quindi non soltanto come un esercizio
inutile, ma anche corruttore, perché allontanava dall'unica
conoscenza cui l'uomo deve mirare che è quella del bene. Certamente
la dialettica ricevette un maggiore impulso nella scuola, dopo la
morte di Zenone, in séguito agli attacchi di Arcesilao. Accanto a
un uso difensivo della dialettica, Crisippo ne riconosceva anche
uno costruttivo, perché riteneva che bisognasse servirsi della forza
del logos «per la scoperta delle proposizioni vere e della loro
organizzazione»
[4]
. Al metodo dialettico usato da Arcesilao,
di derivazione aristotelica, Crisippo opponeva che le argomentazioni
dialettiche possono essere usate per dimostrare le connessioni naturali
delle cose, ma alla conoscenza della verità solo il sapiente giunge:
la dialettica diventa così la scienza che permette di distinguere
le rappresentazioni vere da quelle false, conferendo l'infallibilità
al saggio stoico. In questo senso soltanto il saggio è dialettico. Secondo Diogene Laerzio la logica
si divide in due ambiti, «l'uno che indaga come ciascuna cosa sia,
l'altro come sia chiamata». Esplicitamente a Crisippo è attribuita
la bipartizione tra cose significate e cose significanti. Gli stoici
ritenevano che tre cose fossero collegate strettamente fra loro,
la cosa significata, il significante e la cosa portatrice del nome.
Il significante è la voce, come quando io pronuncio la proposizione
'Dione legge', il significato (lektòn)
è il contenuto concettuale di un termine ο di una proposizione
ed è ciò che è significato quando qualcosa viene detto mediante il linguaggio, il portatore del nome
è l'oggetto esterno. Il significato non è quindi riducibile al suono
della voce: gli stoici spiegavano che mentre il suono della voce
viene udito da tutti, anche da coloro che
non parlano greco, il significato del suono viene compreso soltanto
da coloro che lo parlano. Così Dione non è identico né con il significato
della parola 'Dione' nella proposizione 'Dione cammina' , perché può anche stare
fermo, né con il suono Dione. Tanto Dione
quanto il suono per gli stoici sono corpi, mentre il significato
è incorporeo. Alla base di questa distinzione sta il principio fondamentale
della fisica stoica secondo cui soltanto i corpi che esistono sono
capaci di agire e di patire. La voce è aria percossa e quindi è
corpo, così come lo sono le parole, in quanto
suoni proferiti. Pertanto il significato non ha una esistenza indipendente, ma sussiste in relazione a un
essere razionale che pensa ed esprime in modo articolato nel linguaggio
il contenuto rappresentativo del suo pensiero. Le rappresentazioni,
facendo parte, in un certo senso, delle cose significate, rendono
legittima l'inclusione della teoria della conoscenza nella
dialettica, di cui occupano il primo posto. I significati più importanti sono
per gli stoici quelli delle parole e delle proposizioni. Le proposizioni
sono gli enunciati veri ο falsi relativi alle cose. Il significato
della proposizione 'Dione cammina' è vero ο falso a seconda dell'azione di Dione. Una proposizione
affermativa vera richiede che ciò che essa descrive esista realmente.
Inoltre poiché gli stoici negano l'esistenza degli universali, che
riducono a concetti ο pensieri, e affermano l'esistenza dei
soli individui, il soggetto di una proposizione deve essere sempre
singolare. Infatti una proposizione che abbia per soggetto 'uomo', pur
essendo significativa, non è né vera né falsa. Il soggetto quindi
è sempre un individuo, 'Dione', ο
un pronome dimostrativo, 'questo', ο indefinito, 'qualcuno'.
Il pronome 'questo' ha un valore ostensivo, nel senso che equivale a
indicare con un gesto un oggetto reale esistente. Quando la proposizione
si compone di un soggetto e di un predicato, come 'Dione legge' è detta completa; ciò
che la completa è il fatto che il verbo è collegato a un 'caso',
nominativo, oppure dativo se il verbo è impersonale. Quando la proposizione
è composta da un verbo senza un soggetto, 'cammina', è detta incompleta.
Solo il significato completo si può dire vero ο falso. Il predicato
è dunque un significato incompleto: esso viene ad aggiungersi al
soggetto, nel senso che esprime un modo di essere in cui un corpo
può essere descritto, ma poiché è l'espressione di una qualità che
noi astraiamo da un corpo, è incorporeo. Pertanto la distinzione
tra soggetto e predicato non ha un corrispettivo nel mondo fisico,
in cui esistono soltanto i corpi disposti in un certo modo. La teoria stoica dei significati presenta
dei punti oscuri. Infatti mentre la proposizione,
completa ο incompleta, è un lektòn
e quindi incorporea, ciascuna delle sue singole componenti, come
i nomi ο le congiunzioni, presa individualmente, non ha un
significato incorporeo: basti pensare che il caso è il nome flesso
e quindi è senza alcun dubbio un corpo. Inoltre la parola greca
lektòn può essere tradotta con
'ciò che è detto', 'proposizione',
'enunciato', 'significato' e indica tutte queste cose. Ma la definizione
di significato che si incontra più frequentemente
nei testi è «ciò che sussiste in accordo a una rappresentazione
razionale»
[5]
. Di qui alcuni studiosi hanno interpretato i
significati come i contenuti del pensiero, indipendenti dal linguaggio
che li esprime. A rendere discutibile questa interpretazione stanno però altri elementi della dottrina
stoica, che in questa prospettiva diventerebbero insostenibili:
il fatto che nella teoria causale gli effetti sono concepiti come
significati e quindi sono incorporei, e che il significato di una
proposizione vera è tale perché corrisponde esattamente ai fatti.
Né gli effetti né i fatti possono essere considerati semplicemente
come significati che sussistono in relazione a un pensiero che li pensa. Anche la logica stoica, essendo un sistema
di relazioni tra proposizioni, ha a che fare con i significati.
Opera soprattutto di Crisippo, essa, come quella di
Aristotele, si occupa degli schemi di argomentazione, in
cui dalla congiunzione di due proposizioni poste come premesse,
viene inferita come conclusione una terza
proposizione. Ma mentre la logica aristotelica
è una logica che pone in relazione i termini, la logica stoica pone
in relazione le proposizioni. Aristotele è il primo ad affermare
con chiarezza che la validità di un sillogismo dipende dalla forma,
il che significa che può essere tradotto in un linguaggio formale.
I termini possono essere sostituiti da lettere dell'alfabeto in
ciascun modo del sillogismo, e quindi costituiscono le variabili,
mentre le espressioni logiche quali 'tutti', 'è' ecc. rimangono invariate. Nella logica stoica le variabili
sono le proposizioni e non i termini, e sono rappresentate anziché
da lettere da numeri ordinali. Le costanti logiche sono quattro,
'se', 'e', Ό', 'non', e a differenza di quelle aristoteliche,
possono comparire più di due per volta in ogni proposizione. Crisippo
distingueva due tipi di proposizioni, quelle semplici, come 'è
giorno' e quelle non semplici ο complesse, come 'se è
giorno, allora è giorno', oppure 'se è
giorno, allora c'è luce'.
Le proposizioni complesse constano di una proposizione duplicata
oppure di due ο più proposizioni collegate tra loro da uno
ο più connettivi. In base al connettivo che collega le proposizioni fra loro gli stoici
distinguevano vari tipi di proposizioni complesse. Le
più importanti sono le proposizioni condizionali del tipo 'se è
giorno, allora c'è luce'; le proposizioni
disgiuntive del tipo Ό è giorno, ο non c'è luce';
e le proposizioni congiuntive del tipo 'è giorno e c'è luce'.
Gli stoici definivano un argomento «un complesso costituito da premesse
e da una conclusione». Soltanto alcune argomentazioni stoiche usano
premesse condizionali, ma per gli stoici la validità di un'argomentazione
poggia sulla validità della corrispondente proposizione condizionale. L'esempio di un sillogismo stoico
è 'se è giorno, c'è luce; ma è giorno, dunque c'è luce'.
Gli stoici lo esprimevano nella forma «se il primo, il secondo;
ma il primo, dunque il secondo»
[6]
. Un sillogismo di questa forma era chiamato condizionale:
la prima proposizione costituisce l'antecedente ed esprime sempre
un legame tra i fatti, la seconda è il conseguente ed enuncia la
verità dell'antecedente ('ma è giorno').
Diogene Laerzio
[7]
ci informa che per gli
stoici il sillogismo è sano, ovvero valido, se il contraddittorio
del conseguente è incompatibile con la congiunzione delle premesse.
Tuttavia la validità del sillogismo non
dipende dalla verità del contenuto delle premesse, cosicché la conclusività è condizione necessaria ma non sufficiente
della verità dell'argomento. La distinzione tra la validità e la
verità degli argomenti permette di trattarli
da un punto di vista formale tanto che la logica stoica si presenta
come una disciplina altamente tecnica e autonoma. Essa rappresenta
quindi un tentativo di stabilire leggi semplici tecnicizzate in
formule le quali possono essere ammesse
da chiunque voglia ragionare correttamente e, per questa ragione,
la si è considerata precorritrice della logica moderna. Tuttavia
alcuni interpreti hanno rimproverato a Crisippo di non distinguere
con chiarezza la compatibilita logica
e la compatibilita empirica di antecedente
e conseguente nel condizionale. Infatti
il termine 'sano', che indica soprattutto la correttezza formale,
viene spesso usato intercambiabilmente con vero. Non è facile determinare quali
fossero per Crisippo i criteri di verità
di una proposizione condizionale. Infatti
le fonti non forniscono un resoconto univoco e d'altra parte Sesto
Empirico
[8]
dice che all'interno della scuola stoica c'erano
grandi divergenze su questo problema. Ciò che è caratteristico della dottrina
di Crisippo è che egli riteneva che ogni
sillogismo potesse essere costruito sulla base di cinque schemi
deduttivi semplici che egli aveva chiamato anapοdittici.
Secondo Sesto Empirico
[9]
Crisippo si era servito di questa parola per
indicare quelle forme basilari dei sillogismi che sono evidenti
di per sé senza richiedere alcuna dimostrazione della loro validità.
Essi sono contraddistinti in base all'uso, nelle
premesse, dei tre tipi di proposizioni, condizionali, congiuntive,
disgiuntive, e sono: 1) se il primo, il secondo; ma il primo, dunque
il secondo; 2) se il primo il secondo; ma non il secondo, dunque
non il primo; 3) non: il primo e il secondo; ma il primo, dunque
non il secondo; 4) il primo ο il secondo; ma il primo, dunque
non il secondo; 5) il primo ο il secondo; ma non il secondo
dunque il primo. Altri procedimenti concludenti sono strutturati
in modo tale da poter essere ricondotti a questi cinque schemi mediante
quattro regole di inferenza. Non vi è dubbio che Crisippo sviluppò la logica come una disciplina altamente formalizzata,
basti pensare ai procedimenti con premesse duplicate della forma
'se è giorno, è giorno, ma è giorno, dunque è giorno',
considerati inutili dagli avversari perché non erano in funzione
della dimostrazione e della scienza. Tuttavia
sarebbe un errore interpretare la logica stoica come una disciplina
formale avulsa da qualunque utilità pratica, perché nei testi esistono
affermazioni inequivocabili che dimostrano che la logica ha una
rilevanza sia nella fisica che nella morale e che è impossibile
isolarla senza perdere di vista la comprensione dell'intero sistema
filosofico stoico. Sotto i condizionali
gli stoici riportano anche i segni che vengono interpretati
come modi per fare affermazioni su cose non-evidenti. Infatti
si ha un segno quando «la proposizione antecedente in un condizionale
sano è rivela-trice del conseguente»
[10]
. Una interessante applicazione
della teoria dei segni da parte di Crisippo riguarda una proposizione
astrologica. Cicerone
[11]
ci riferisce che Crisippo accettava la verità
delle leggi degli astrologi sulle condizioni relative alla nascita
di un individuo, ma voleva assolutamente
evitare la necessità che esse comportano. Così egli esigeva che
gli astrologi cambiassero la proposizione 'se Fabio è nato al sorgere
della canicola, non morirà in mare',
nell'altra 'non: qualcuno è nato al sorgere della canicola e morirà
in mare'. In breve egli non ammetteva che la legge astrologica
fosse espressa in un condizionale perché non ammetteva che ci fosse
una relazione necessaria tra il segno e la verità da esso
significata. Poiché dal segno astrologico di essere nato al sorgere
della canicola non segue necessariamente
la sorte di Fabio di non morire in mare, egli trasformava il condizionale,
che è necessariamente vero, nella negazione delle due proposizioni
coordinate in cui non c'è una connessione logica diretta tra le
due proposizioni congiunte, evitando la necessità. Infatti
le leggi della divinazione rappresentano connessioni empiriche e
non logiche tra verità passate e future e la congiunzione negativa
è il modo corretto di esprimere queste connessioni. Tuttavia la soluzione indicata da
Crisippo è stata giudicata un giuoco di
parole contorto e inefficace, in quanto per Crisippo segno e verità
da esso significata sono correlati in un condizionale sano come
l'antecedente vero al conseguente. Resta comunque
aperta un'altra possibilità, che i segni di cui qui si tratta siano
i segni commemorativi e non i segni indicativi. I segni commemorativi
sono segni che sono stati osservati precedentemente in connessione con certi altri fenomeni, per
esempio il fatto che c'è latte nelle mammelle di una donna che
ha avuto un bambino ricorda che, ogni volta che c'è latte nelle
mammelle di una donna, essa ha avuto un bambino. Mentre tra il segno
indicativo e la verità da esso significata si stabilisce una necessità logica, il segno
commemorativo comporta delle generalizzazioni dall'esperienza che
stabiliscono soltanto una connessione empirica. Infatti
la loro verità è conosciuta per induzione dall'esperienza, come
il fatto che gli astrologi hanno osservato ripetutamente per un
lungo periodo di tempo la connessione tra un certo tipo di fenomeni
astrologici e determinati eventi della vita umana. In questo senso
i segni divinatori sono segni commemorativi e non indicativi e quindi
esprimibili non in un condizionale, ma in proposizioni congiuntive
negate.
[1] Quintiliano, Institutio oratoria II, 15, 34. [2] Pseudo-Platone, Definizioni 414b, 10 sgg. [3] Stobeo II, 74, 16. [4] Plutarco, De stoicorum repugnantiis 10, 1037B. [5] Sesto Empirico, Contro i matematici VIII, 70. [6] Sesto Empirico, Contro i matematici VII, 80. [7] Sesto Empirico, Contro i matematici VII, 77. [8] Sesto Empirico, Contro i matematici VIII, 245. [9] Sesto Empirico, Contro i matematici VIII, 223. [10] Sesto Empirico, Schizzi pirroniani II, 104. [11] Cicerone, De fato 12 sgg. |