Parte V

 

Vivere liberi

 

 

 

 

Prefazione

 

 

 

Passo finalmente alla Parte di questo lavoro, l’ultima, che concerne il modo, o la via, per raggiungere la Libertà. In questa Parte tratterò così della potenza della Ragione, mostrando quanto la Ragione stessa possa sui sentimenti e in che cosa consista la Libertà della Mente o Beatitudine: e da questa esposizione risulterà evidente il vantaggio che il sapiente ha sugli umani grezzi e carnali, ossia quanto la Saggezza sia preferibile all’insipienza. Non è questa la sede per indicare come e per qual via 1’ Intelletto debba essere condotto a perfezione, e con quali criteri il Corpo debba essere conservato in grado di svolgere correttamente le sue funzioni: si tratta di mansioni che competono, rispettivamente, alla Logica e alla Medicina. Qui, come ho detto, tratterò soltanto della potenza della Mente, ossia della potenza della Ragione, e mostrerò in primo luogo la natura e l’entità dell’ imperio che essa ha sui sentimenti e col quale li raffrena e li modera: perché abbiamo già dimostrato che sui nostri sentimenti noi non abbiamo un dominio assoluto.

Gli Stoici credettero, invero, che i sentimenti dipendano assolutamente dalla nostra volontà e che noi possiamo dominarli assolutamente. Ma, a malgrado dei loro princìpi, l’esperienza li costrinse a riconoscere che per almeno raffrenare e moderare i nostri sentimenti sono necessari una costanza e un impegno non piccoli. (Qualcuno s’è sforzato di mostrare questa possibilità portando l’esempio, se ricordo bene, dei due cani, l’uno da compagnia e l’altro da caccia: che a forza di addestramento s’avvezzarono, il primo a rincorrere le lepri, il secondo a disinteressarsene). All’opinione stoica originaria è molto favorevole il Cartesio. Egli infatti stabilisce che l’Anima, o Mente, è unita precipuamente ad una parte del cervello, la cosiddetta ghiandola pineale o epifisi, per mezzo della quale la Mente percepisce sia tutti i movimenti del Corpo, sia gli oggetti esterni, e che la Mente può variamente muovere soltanto col volerlo; e afferma ancora che questa ghiandola è sospesa nel mezzo del cervello in modo tale da poter essere mossa dalla minima azione degli spiriti animali. II Cartesio sostiene poi che questa ghiandola, appesa com’è, assume tante posizioni diverse quanto diversamente la colpiscono gli spiriti animali, e che vi s’imprimono tanti vestigi diversi quanti sono i diversi oggetti esterni che orientano verso di essa gli spiriti animali stessi: e da ciò consegue che poi, quando la ghiandola, appesa al suo picciuolo, sia girata dall’Anima - che la muove a suo piacere - in questo o in quel modo in cui a suo tempo la girarono gli spiriti animali agitati in questo o in quel modo, la ghiandola stessa spingerà e determinerà quegli spiriti nella medesima maniera in cui essi in precedenza erano stati respinti dalla ghiandola quando essa si trovava nella stessa posizione, nella quale l’avevano posta gli spiriti animali agitati da cause esterne. Il Cartesio afferma inoltre che ciascuna volizione della Mente è per natura connessa a una determinata posizione della ghiandola: così che, per esempio, se qualcuno vuole osservare un oggetto lontano, questa volontà farà sì che la pupilla gli si dilati; ma se qualcuno intende soltanto dilatare la pupilla, questa volontà non avrà alcun effetto, perché la natura non ha collegato il movimento della ghiandola - che serve a spingere gli spiriti animali verso il nervo ottico nel modo idoneo a dilatare o a restringere la pupilla - con la volontà di dilatarla o di restringerla, ma solo con la volontà di osservare oggetti lontani o vicini. Egli stabilisce infine che, sebbene ciascun movimento della ghiandola considerata sembri connesso per natura, fin dall’inizio dell’esistenza di ciascun umano, a un determinato nostro pensiero, l’esercizio e l’abitudine possono collegare altri movimenti ad altri pensieri: e si sforza di dimostrare questa affermazione nella prima parte, art. 50, del suo "Le Passioni dell’Anima"; e da un tale postulato il Cartesio conclude che non c’è Anima tanto incapace che non possa, se ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle sue Passioni. Queste infatti, come egli le definisce, sono "percezioni, o sensazioni, o commozioni dell’anima, che si riferiscono ad essa in modo specifico", e che, si noti, "sono prodotte, conservate e corroborate da qualche movimento degli spiriti" (ibidem, art. 27). Ma dato che a qualsiasi volizione noi possiamo collegare un qualsiasi moto della ghiandola, e quindi degli spiriti, e dato che la determinazione della volontà è totalmente in nostro potere, qualora noi determiniamo la nostra volontà mediante i giudizi certi e sicuri secondo i quali noi vogliamo orientare le azioni della nostra vita, e colleghiamo a questi giudizi i movimenti delle passioni che vogliamo avere, noi allora acquisteremo un dominio assoluto sulle nostre Passioni. L’opinione di quell’uomo celeberrimo è proprio questa che ho esposto, se l’ho costruita correttamente sulle sue proprie parole: e difficilmente io l’avrei creduta espressa da un così grand’uomo, se essa fosse stata meno acuta. Certo non posso meravigliarmi abbastanza che un filosofo, il quale aveva fermamente deciso di non dedurre alcunché se non da princìpi spontaneamente evidenti, e di non affermare alcunché che egli non percepisse in maniera chiara e distinta; che un filosofo il quale, ancora, aveva tante volte criticato i seguaci della Scolastica per il loro volere spiegare mediante qualità occulte le cose difficilmente comprensibili, accetti un’ipotesi più occulta di ogni qualità occulta. Che cosa intende egli, per favore, parlando di unione della Mente e del Corpo? quale concetto chiaro e distinto ha, dico, di un pensiero strettissimamente unito a una determinata particella di sostanza misurabile? Vorrei davvero che egli avesse spiegato una tale unione mediante la sua causa prossima; ma egli ha concepito la Mente così distinta dal Corpo da non poter escogitare alcuna causa singolare né dell’unione predetta, né della Mente stessa: e gli è stato necessario ricorrere alla causa di tutto 1’ Universo, cioè a Dio. Vorrei poi - lo vorrei molto - sapere con quale finezza la Mente può comunicare il moto a codesta ghiandola pineale, e con quanta forza può conservarla così sospesa e suscettibile di rotazione: perché non so se la ghiandola in questione sia ruotata dalla Mente più velocemente o più lentamente che dagli spiriti animali, e se i moti concernenti le Passioni, che abbiamo strettamente collegato con i predetti giudizi saldi, non possano separarsi da quei giudizi per cause meccaniche, cioè per cause attribuibili al Corpo: tanto che accada, per esempio, che la Mente si sia fermamente proposta di affrontare un qualche pericolo, e a questa decisione abbia collegato il movimento della ghiandola che corrisponde all’Audacia; ma che, alla vista del pericolo, la ghiandola - che è pure una parte di un Corpo animale - si giri in modo che la Mente non possa pensare che alla fuga. E poiché in effetti non c’è un criterio per le operazioni della volontà che possa essere applicato alle operazioni del moto, non c’è nemmeno alcun confronto fra la potenza - o le forze - della Mente e quelle del Corpo; e di conseguenza le forze dell’uno non possono in alcun modo essere regolate o governate dalle forze dell’altra. A ciò s’aggiunga poi che né la ghiandola in parola si trova situata nel mezzo del cervello in condizioni tali da poter agevolmente ruotare secondo ogni asserita necessità, né tutti i nervi del corpo si spingono fino alle cavità del cervello. E infine non prendo in considerazione tutte le affermazioni che il Cartesio fa a proposito della volontà e della sua libertà, avendo qui sopra dimostrato a sufficienza - e anche più - che si tratta di affermazioni non corrispondenti al vero. Poiché dunque la potenza della Mente, come poco fa ho mostrato, è definita soltanto dalla sua intelligenza, noi determineremo il modo di rendere innocui i sentimenti, e anzi di servircene, mediante la sola conoscenza che la Mente possiede: modo del quale, credo, tutti hanno una qualche esperienza, ma che in genere non vedono distintamente né analizzano con cura; e, una volta determinato quel modo, sulla base di esso dedurremo tutto ciò che concerne la beatitudine della Mente.

 

 

 

Assiomi

 

 

1. Se nello stesso oggetto vengano provocate due azioni contrarie dovrà necessariamente prodursi nell’una e nell’altra, o in una sola di esse, un cambiamento, in seguito al quale le azioni considerate cessino d’esser contrarie.

 

2. La potenza di un effetto si definisce o si valuta sulla base della potenza della sua causa, in quanto 1’ essenza dell’effetto si spiega o si definisce mediante l’essenza della sua causa.

(Vedi la Prop. 7 della P. III: "Lo sforzo con cui ciascuna cosa procura di perseverare nel suo essere [(= effetto)] non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa, cioè il suo essere, e il suo esserci, presente ed attivo [(= causa)]").

 

 

 

Dottrina

 

 

Prop. 1.

Come i pensieri e le idee delle cose si ordinano e si concatenano nella Mente, così, e con perfetta corrispondenza, le affezioni del Corpo, ossia le immagini delle cose, si ordinano e si concatenano nel Corpo.

Dimostrazione: L’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose: e viceversa. Per questa ragione, nello stesso modo in cui l’ordine e la connessione delle idee nella Mente si svolgono secondo l’ordine e la connessione delle affezioni del Corpo, così, viceversa, l’ordine e la connessione delle affezioni del Corpo si svolgono nello stesso modo in cui i pensieri e le idee delle cose si ordinano e si concatenano nella Mente. (P. II, Conseg. d. Prop. 6; Prop. 7 e sua Conseg.; Prop. 18; P. III, Prop. 2).

 

Prop. 2.

Se noi riusciamo a separare una commozione dell’animo, ossia un sentimento, dal pensiero della causa esterna che 1’ ha prodotta, e a collegarla con altri pensieri, allora l’Amore o l’Odio verso quella causa esterna saranno annullati, e così pure le fluttuazioni d’animo che sorgono da questi sentimenti.

Dimostrazione: Ciò che costituisce la forma dell’Amore o dell’Odio, ossia ciò che configura l’Amore e l’Odio come essi sono, è una Letizia, o una Tristezza, accompagnata dall’idea di una causa esterna (v. Defin. dei Sentim., 6 e 7): eliminata dunque quest’idea, viene eliminato insieme anche ciò che rende Odio l’Odio e Amore l’Amore: e pertanto questi sentimenti sono annichilati, e sono parimente annichilati gli altri sentimenti che da essi hanno origine.

 

Prop. 3.

Un sentimento che è una passione cessa di essere una passione dal momento in cui noi ce ne formiamo un’idea chiara e distinta.

Dimostrazione: Un sentimento che è una passione è un’idea confusa: se quindi di un tale sentimento noi ci formiamo un’idea chiara e distinta, quest’idea non si distinguerà dal sentimento corrispondente - in quanto esso si riferisce alla sola Mente - se non perché noi sappiamo che si tratta di due entità specifiche (distinzione di ragione): e perciò quel sentimento cesserà di essere una passione. (P. II, Prop. 21 e suo Chiarim.; P. III, Prop. 3; Defin. Gen. dei Sentim.).

Conseguenza: Il nostro potere su un sentimento è direttamente proporzionale alla conoscenza che ne abbiamo, mentre la passione che quel sentimento provoca nella Mente è inversamente proporzionale alla conoscenza predetta.

 

Prop. 4.

Non c’è alcuna affezione del Corpo della quale non possiamo formarci un concetto chiaro e distinto.

Dimostrazione: Ciò che è comune a tutte le cose non può concepirsi se non in maniera adeguata; e pertanto non c’è alcuna affezione del Corpo della quale non possiamo formarci un concetto chiaro e distinto. (P. II, Prop. 12; Prelimin. II A 2; Prop. 38).

Conseguenza: Da questo deriva che non c’è alcun sentimento del quale non possiamo formarci un concetto chiaro e distinto. Un sentimento è infatti l’idea di un’affezione del Corpo, e deve quindi - in quanto idea: v. la Proposizione qui sopra - implicare un concetto chiaro e distinto.

Chiarimento: Dato che non c’è cosa alcuna da cui non derivi qualche effetto, e dato che noi conosciamo in maniera del tutto chiara e distinta ciò che deriva da un’idea che in noi è adeguata, ne consegue che ciascuno ha il potere di conoscere sé e i suoi sentimenti (se non in assoluto, almeno in parte) in maniera chiara e distinta, e può di conseguenza fare in modo di patirne meno. Proprio a questo, pertanto, ci si deve dedicare col maggiore impegno: così da arrivare a conoscere in maniera chiara e distinta, per quanto è possibile, ciascun sentimento; in modo che la Mente sia determinata, sulla base di un sentimento, a pensare le cose che essa vi percepisce in maniera chiara e distinta e nel cui pensiero si trova perfettamente a suo agio; in modo, ancora, che il sentimento stesso sia separato dal pensiero della sua causa esterna e sia invece collegato a pensieri veri, cioè a concezioni, costruite dalla Mente o altrimenti acquisite, delle quali la Mente ha la piena padronanza. Da questa nuova situazione risulterà non solo che l’Amore e l’Odio eccetera saranno annullati, ma che anche gli appetiti, o Cupidità, che sogliono nascere dal sentimento in esame, non possano avere eccesso. Si deve infatti tener presente in primo luogo che è a causa di un solo appetito, il medesimo in entrambi i casi, che un umano viene considerato ora attivo, ora passivo. Per esempio, abbiamo visto che la natura umana è congegnata in modo tale che ognuno desidera che tutti gli altri vivano secondo il suo criterio: ma questo desiderio, in un umano che non è guidato dalla Ragione, è una passione, che ha nome Ambizione e che non differisce molto dalla Superbia; mentre in un umano che regola la sua vita sulle direttive della Ragione questo desiderio è un’azione, ossia una virtù, che si chiama Civismo consapevole. Nello stesso modo tutti quanti gli appetiti, o Cupidità, sono passioni in quanto s’originano da idee inadeguate; ma sono espressioni di virtù quando sono mossi o prodotti da idee adeguate. E questo mezzo di correggere e di rendere utili i sentimenti (torno ora al punto di partenza), che consiste nella conoscenza vera dei sentimenti stessi, è in assoluto il migliore fra quelli che sono in nostro potere: dato che non c’è altra potenza che la Mente abbia oltre a quella di pensare e di formare idee adeguate: come abbiamo mostrato più sopra. (P. I, Prop. 36; P. II, Prop. 40; P. III, Prop. 3; Chiarim. d. Prop. 31; P. IV, Prop. 37, suo Chiarim., sua Dimostr. 2a; Prop. 59; Prop. 61; P. V, Prop. 2).

 

Prop. 5.

Il sentimento verso una cosa che immaginiamo semplicemente, senza considerarla né necessaria né possibile né contingente, è, a parità di altre condizioni, il più forte di tutti.

Dimostrazione: Sappiamo che un sentimento concernente una cosa che immaginiamo libera è più forte che se la cosa fosse necessaria, e di conseguenza ancor più forte che se immaginassimo quella cosa come possibile o contingente. Ma immaginare una cosa come libera non può essere altro che immaginarla in sé, trascurando (o ignorando) le cause dalle quali essa è stata determinata ad operare, e ad essere: e dunque un sentimento verso una cosa che immaginiamo semplicemente è - a parità di altre condizioni - più forte di un sentimento concernente una cosa necessaria o possibile o contingente, e di conseguenza è il più forte di tutti. (P. II, Chiarim. d. Prop. 35; P. III, Prop. 49; P. IV, Prop. 11).

 

Prop. 6.

Quanto più la Mente conosce tutte le cose come necessarie, tanto maggiore è il potere che essa ha sui sentimenti, ossia tanto meno ne patisce.

Dimostrazione: La Mente è capace di conoscere che tutte le cose sono necessarie, e che sono determinate ad esistere e ad operare dall’infinita concatenazione delle cause: e pertanto in proporzione di una tale conoscenza essa procura di patire meno dei sentimenti che nascono dalle cose considerate e di risentirsi meno nei riguardi delle cose stesse. (P. I, Prop. 28 e 29; P. III, Prop. 48; P. V, Prop. 5).

Chiarimento: Quanto più questa conoscenza delle cose come necessarie concerne cose singolari specifiche, che noi immaginiamo in maniera più distinta e più vivace, tanto più il predetto potere della Mente sui sentimenti è grande: cosa che è attestata dalla stessa comune esperienza. Vediamo infatti che la Tristezza che sorge dall’aver perduto un bene si attenua non appena colui che ha perduto quel bene si rende conto che esso non poteva in alcun modo essere conservato. Così anche vediamo che nessuno commisera un infante perché ancora non sa parlare né camminare né ragionare e perché in fondo vive tanti anni senza aver aver coscienza di sé; mentre se gli umani in genere nascessero adulti, e solo qualcuno qua e là nascesse bambino, tutti compassionerebbero quei bambini: perché allora la condizione di bambino sarebbe vista non come una cosa naturale, cioè governata da regole uniformi, ma come un difetto o un ghiribizzo della "natura". Su questa linea, evidentemente, potremmo considerare parecchie altre cose.

 

Prop. 7.

I sentimenti che s’originano dalla Ragione o che ne ricevono il primo impulso sono più potenti - in quanto durevoli nel tempo - dei sentimenti che concernono cose singolari che noi consideriamo assenti.

Dimostrazione: Noi non consideriamo assente una determinata cosa in base al sentimento col quale l’immaginiamo, ma perché il nostro Corpo è affetto da un altro sentimento che esclude l’esistenza presente della cosa considerata. Perciò un sentimento che si riferisce ad una cosa che noi consideriamo assente non è di natura tale da sopraffare le altre azioni e - complessivamente - la potenza di un umano; al contrario, quel sentimento è di natura tale da poter in qualche modo essere coartato da quelle affezioni che escludono l’esistenza della sua causa esterna. Un sentimento, invece, che nasce dalla Ragione, si riferisce necessariamente alle proprietà comuni delle cose, proprietà che noi consideriamo sempre come presenti (dato che non può esserci alcunché che escluda la loro presente esistenza) e che immaginiamo sempre allo stesso modo, cioè con permanente uniformità: ragion per cui un tale sentimento rimane sempre il medesimo; e di conseguenza i sentimenti ad esso contrari, che non sono sostenuti a sufficienza dalle loro cause esterne, dovranno vieppiù adattarsi a quel forte sentimento permanente fino a non essergli più contrari. Sotto questo aspetto, quindi, un sentimento che nasce dalla Ragione ha una potenza complessiva maggiore di quella di ogni altro sentimento comune. (P. II, Prop. 17; Prop. 38; Chiarim. 2° d. Prop. 40; P. IV, Prop. 6; Prop. 9; P. V, Ass. 1).

 

Prop. 8.

Quante più sono le cause simultaneamente cooperanti che suscitano un sentimento, tanto più quel sentimento sarà forte.

Dimostrazione: Molte cause insieme hanno una potenza maggiore di quella che avrebbero se fossero in numero minore; e, pertanto, quante più sono le cause simultaneamente operanti che suscitano un sentimento, tanto più quel sentimento sarà forte. (P. III, Prop. 7; P. IV, Prop. 5).

Chiarimento: Questa Proposizione è evidente anche sulla base dell’Assioma 2 di questa Parte.

 

Prop. 9.

Un sentimento che si colleghi a cause numerose e diverse, le quali la Mente considera mentre considera il sentimento stesso, è meno pericoloso di un altro sentimento egualmente forte che si colleghi a una sola causa o a poche; e noi ne patiamo meno, e di ciascuna sua causa ci risentiamo meno.

Dimostrazione: Un sentimento è cattivo o pericoloso (o nocivo) solo in quanto la Mente ne è impedita di pensare: pertanto un sentimento dal quale la Mente è determinata a considerare più oggetti contemporaneamente è meno pericoloso (o nocivo) di un altro sentimento egualmente forte che trattenga la Mente impegnata unicamente nella considerazione di un solo oggetto, o di pochi, al punto che essa non possa pensare ad altre cose. Dato poi che 1’ essenza - ossia la potenza - della Mente consiste nel solo pensare, a causa di un sentimento che la determina a considerare più cose insieme la Mente dunque patirà meno che a causa di un sentimento equivalente che la tenga occupata unicamente nella considerazione di un solo oggetto, o di pochi. Infine il sentimento preso in esame, in quanto si riferisce a molte cause esterne, è meno forte dell’altro, con cui l’abbiamo confrontato, anche nei riguardi di ciascuna sua causa. (P. II, Prop. 11; P. III, Prop. 7; Prop. 48; P. IV, Prop. 26 e 27).

 

Prop. 10.

Quanto a lungo noi non siamo combattuti da sentimenti contrari alla nostra natura, tanto a lungo abbiamo il potere di ordinare e concatenare le affezioni del Corpo in un quadro conforme ai criteri dell’intelletto.

Dimostrazione: I sentimenti che sono contrari alla nostra natura, cioè che sono cattivi, sono tali in quanto impediscono alla Mente di conoscere. Quanto a lungo, quindi, noi non siamo combattuti da sentimenti contrari alla nostra natura, tanto a lungo la potenza della Mente, che si sforza di conoscere le cose, non viene ostacolata, e tanto a lungo, cosi, la Mente ha il potere di formare idee chiare e distinte, e di dedurle le une dalle altre. Di conseguenza, altrettanto a lungo noi abbiamo il potere di ordinare e concatenare le affezioni del Corpo in un quadro conforme ai criteri dell’intelletto. (P. II, Chiarim. 2° d. Prop. 40 e Chiarim. d. Prop. 47; P. IV, Prop. 26, 27, 30; P. V, Prop. 1).

Chiarimento: Grazie a questa potestà di ordinare e concatenare correttamente le affezioni del Corpo noi possiamo arrivare ad essere non facilmente interessati da sentimenti cattivi: per ostacolare o indebolire sentimenti ordinati e concatenati secondo un quadro conforme ai criteri dell’intelletto occorre infatti una forza maggiore di quella necessaria per ostacolare sentimenti non ben definiti e instabili. Ciò pertanto che possiamo fare di meglio, mentre ancora non possediamo una conoscenza - e quindi una padronanza -perfetta dei nostri sentimenti, è di configurarci un corretto criterio al quale il nostro vivere debba conformarsi: definire cioè e fissarci delle sicure regole di vita, e imprìmercele nella memoria, e sùbito applicarle ai diversi eventi che nella vita s’incontra più spesso: cosi che la nostra immaginazione venga impressionata da una larga applicazione di tali regole, e possa rendercele presenti in ogni circostanza. Per esempio, tra le nostre regole di vita noi abbiamo posto questa (P. IV, Prop. 46 e suo Chiarim.), che l’Odio debba vincersi con Amore, ossia con Generosità, e non compensarsi con altro Odio: e allora, per aver presente questo precetto della Ragione in qualsiasi momento in cui esso riesca utile, dovremo riflettere spesso e con cura sulle offese che gli umani si scambiano comunemente, e su quale sia la maniera migliore per opporvisi con la Generosità; collegheremo in tal modo l’immagine di ogni offesa con 1’ immaginazione dell’appropriata applicazione di questa regola, che, qualora ci sia arrecata un’offesa, noi ricorderemo automaticamente. E se avremo sempre presenti il criterio del nostro vero utile, e la certezza del bene che deriva dall’amicizia e dal vivere associato, e la consapevolezza della suprema soddisfazione interiore che sorge dal volonteroso assoggettarsi a razionali norme di vita, e la cognizione secondo cui gli umani, come ogni altro ente, agiscono per necessità di natura, allora un’offesa, e l’Odio che suole nascerne, occuperà una parte ben piccola della nostra immaginazione, e noi potremo facilmente vincerla; e se non riusciremo altrettanto facilmente ad aver la meglio sull’Ira, che di solito è risvegliata dalle offese più gravi, noi potremo però vincerla - sebbene non senza fluttuazion d’animo - in un tempo molto più breve di quello che ci occorrerebbe se non avessimo in precedenza meditato, e rese così disponibili in ogni evenienza, le norme predette. Nella stessa maniera si deve, per superare il Timore, riflettere sulla Determinazione, o Coraggio consapevole: si deve cioè sciorinare ed analizzare spesso la serie dei più comuni pericoli che s’incontra nella vita, e determinare come si possa meglio evitarli, o superarli, con la presenza di spirito e con il coraggio consapevole.

Bisogna però notare che nell’ordinare i pensieri e le immagini si deve sempre richiamare alla nostra attenzione ciò che di buono c’è in ciascuna cosa: in modo tale da essere sempre determinati ad agire da un sentimento di Letizia. Se qualcuno, per esempio, s’accorge di rincorrere troppo la gloria, pensi all’uso corretto di questo bene, e al fine per cui esso è da perseguirsi, e ai mezzi coi quali esso può acquistarsi; non pensi invece al cattivo uso della gloria e alla sua inconsistenza, e all’incostanza degli umani, e ad altre cose di questo genere, che vengono in mente solo a chi ha qualche infermità di spirito: soprattutto con queste considerazioni negative s’affliggono infatti gli ambiziosi (e più sono ambiziosi più s’affliggono) quando disperano di ottenere un riconoscimento che ambiscono, e con l’esprimerle mentre schiumano di rabbia si figurano di apparire filosofi. Questo dimostra che proprio coloro che prèdicano con maggiore impegno contro la vanità del mondo e lo smodato amor della gloria ne sono più cupidi: e ciò deve dirsi non solo degli ambiziosi, ma di tutti coloro che appaiono (o si ritengono) sfortunati, e che sono privi di forza d’animo. Così anche l’avaro che sia povero non finisce mai di deprecare il cattivo impiego del denaro e i vizi dei ricchi - non riuscendo con questo che ad affliggere se stesso e a mostrare agli altri che non solo la sua propria povertà gli sta sullo stomaco, ma anche la ricchezza altrui. Allo stesso modo coloro che sono stati male accolti dall’amica non pensano che all’incostanza e all’infedeltà delle donne e a tutti gli altri vizi femminili sui quali si fa tanta letteratura: per dimenticare poi tutte queste cose non appena l’amica torna con loro in buoni rapporti.

Chi invece si propone di governare i propri sentimenti e i propri appetiti solo per amore della Libertà farà ogni possibile sforzo per conoscere le virtù e le loro cause, e per ricolmare il proprio animo della gioia che nasce da tale conoscenza vera; e farà invece attenzione a non richiamarsi mai ai vizi degli umani, a non scoraggiare né ad abbattere i propri simili, a non contentarsi di sembrare libero senza esserlo davvero. E così, chi osserverà queste norme (che non sono poi troppo impegnative!) con diligenza e con continuità, fino a renderle una buona abitudine, riuscirà senza dubbio in breve tempo a dirigere le sue azioni - o almeno il più delle sue azioni - secondo le prescrizioni della Ragione. (P. II, Prop. 18; P. III, Prop. 59; P. IV, Prop. 52; Conseg. d. Prop. 63; P. V, Prop. 6, 7, 8).

 

Prop. 11.

Quante più sono le cose a cui un’immagine si riferisce, tanto maggiore è la frequenza con cui essa si presenta (ossia tanto più spesso essa si rifà viva), e tanto più essa occupa la Mente.

Dimostrazione: Quante più, infatti, sono le cose a cui un’immagine (o un sentimento) si riferisce, tante più sono le cause da cui essa può essere suscitata e rafforzata: cause tutte che la Mente - per 1’Ipotesi - considera simultaneamente in forza del sentimento stesso; e quindi tanto più frequente è la presenza del sentimento considerato, ossia tanto più spesso esso si rifà vivo, e tanto più occupa la Mente (Prop. 8 qui sopra).

 

Prop. 12.

Immagini nuove di cose si collegano alle immagini concernenti cose che conosciamo in maniera chiara e distinta più facilmente che ad altre immagini.

Dimostrazione: Le cose che conosciamo in maniera chiara e distinta sono o le proprietà comuni delle cose, o ciò che da queste proprietà si deduce: e di conseguenza tali cose che conosciamo in maniera chiara e distinta occupano bene spesso la nostra Mente. Pertanto potrà accadere che noi ci troviamo a considerare cose, che via via conosciamo, insieme con queste sempre presenti nella Mente - più facilmente che con le altre; e accadrà quindi che le nuove cognizioni si colleghino con queste, "stabili", più facilmente che con le altre, "avventizie". (P. II, Prop. 18; Chiarim. 2° d. Prop. 40; P. V, Prop. 11).

 

Prop. 13.

Quante più sono le altre immagini a cui una. determinata immagine è collegata, tanto più spesso essa riprenderà vigore, o risorgerà nella Mente.

Dimostrazione: Quante più sono le altre immagini a cui una determinata immagine è connessa, tante più cose ci sono (P. II, Prop. 18) dalle quali essa può essere suscitata.

 

Prop. 14.

La Mente può far si che tutte le affezioni del Corpo, ossia le immagini delle cose, si riferiscano all’idea di Dio.

Dimostrazione: Non c’è alcuna affezione del Corpo della quale la Mente non possa formarsi un concetto chiaro e distinto (Prop. 4 qui sopra); e quindi essa può far sì (P. 1, Prop. 15) che tutte le affezioni siano riferite all’idea di Dio.

 

Prop. 15.

Colui che conosce in maniera chiara e distinta se stesso e i suoi sentimenti ama Dio; e l’ama tanto più quanto più conosce se stesso e i suoi sentimenti.

Dimostrazione: Chi conosce in maniera chiara e distinta se stesso e i suoi sentimenti s’allieta, e questo allietarsi è accompagnato dall’idea di Dio (come risulta dalla Proposizione precedente): e pertanto quegli ama Dio, come è noto, e, per la struttura stessa dell’evento, tanto più l’ama quanto più conosce se stesso e i suoi sentimenti. (P. III, Prop. 53; Defin. dei Sentim., 6).

 

Prop. 16.

Questo Amore verso Dio è tale da occupare la Mente quanto essa ne è capace.

Dimostrazione: Questo Amore è infatti collegato a tutte le affezioni del Corpo (Prop. 14 qui sopra), e da tutte è alimentato (Prop. 15 qui sopra): e quindi (Prop. 11 qui sopra) è tale da occupare la Mente quanto essa ne è capace; ossia è tale da occupare la Mente in sommo grado.

 

Prop. 17.

Dio è esente da passioni, e non è toccato da alcun sentimento di Letizia o di Tristezza.

Dimostrazione: Tutte le idee, in quanto si riferiscono a Dio, sono vere, cioè adeguate; e quindi Dio è esente da passioni (che sono l’esito di idee confuse o inadeguate). Dio poi non può - essendo immutabile - passare ad una perfezione maggiore o minore: e quindi non prova alcun sentimento, né di Letizia né di Tristezza. (P. I, Conseg. 2a d. Prop. 20; P. II, Def. 4; Prop. 32; P. III, Def. dei Sentim., 2 e 3; Defin. Gen. dei Sentim.).

Conseguenza: In termini propri, Dio non ama odia nessuno. Come abbiamo visto or ora, Dio non prova alcun sentimento di Letizia o di Tristezza, e di conseguenza (Def. dei Sentim., 6 e 7) egli non ama né odia nessuno, né alcuna cosa.

 

Prop. 18.

Nessuno può avere Dio in odio.

Dimostrazione: L’idea di Dio, che è in noi, è adeguata e perfetta; perciò, in quanto consideriamo Dio, in tanto siamo attivi: di conseguenza non può darsi alcuna Tristezza che sia accompagnata dall’idea di Dio, ossia non può darsi alcun Odio che si riferisca a Dio: vale a dire che è impossibile avere Dio in odio. (P. II, Prop. 46 e 47; P. III, Prop. 3; Prop. 59; Defin. dei Sentim., 7).

Conseguenza: L’Amore verso Dio non può volgersi in Odio.

Chiarimento: Mi si può obiettare che, conoscendo Dio come causa di tutte le cose, per ciò stesso noi ammettiamo che Dio sia causa della Tristezza. A questa obiezione rispondo che, in quanto noi conosciamo le cause della Tristezza, in tanto la Tristezza stessa cessa di essere una passione, cioè cessa di essere Tristezza; e, quindi, in quanto conosciamo che Dio è causa della Tristezza, in tanto ci allietiamo. (P. III, Prop. 59; P. V, Prop. 3).

 

Prop. 19.

Chi ama Dio non può pretendere - ovvero, non è letteralmente in grado di desiderare - che Dio l’ami a sua volta.

Dimostrazione: Se un umano desidera d’essere ricambiato dell’amore che egli ha per Dio, con ciò inevitabilmente egli desidera che Dio - che egli ama - non sia Dio; e di conseguenza desidera di rattristarsi: ciò che è assurdo. Dunque chi ama Dio non può, o è incapace di, desiderare che Dio l’ami a sua volta. (P. III, Prop. 19; Prop. 28; P. V, Conseg. d. Prop. 17).

 

Prop. 20.

L’Amore verso Dio qui preso in esame non può essere contaminato da sentimenti di Invidia e di Gelosia: esso anzi si fa tanto più vigoroso e lieto quanti più sono gli umani che chi ama Dio immagina uniti a Lui con il suo medesimo vincolo d’Amore.

Dimostrazione: Questo Amore verso Dio è il bene supremo che secondo l’insegnamento della Ragione noi possiamo desiderare, e può appartenere a tutti gli umani, e noi desideriamo che tutti ne godano; e quindi esso non può esser macchiato da un sentimento di Invidia, e nemmeno da un sentimento di Gelosia: al contrario, questo Amore è strutturalmente tale da trovarsi tanto più rafforzato quanti più sono gli umani che noi immaginiamo goderne. (P. III, Prop. 31; Chiarim. d. Prop. 35; Defin. dei Sentim., 23; P. IV, Prop. 28, 36, 37; P. V, Prop. 18).

Chiarimento: In questo stesso modo possiamo mostrare che non c’è alcun sentimento che sia direttamente contrario a questo Amore e dal quale questo Amore possa esser distrutto: e quindi possiamo concludere che questo Amore verso Dio è il più costante di tutti i sentimenti, e che, in quanto si riferisce al Corpo, esso non può esser distrutto se non insieme col Corpo stesso. (Vedremo fra poco di quale natura esso sia in quanto si riferisce alla Mente).

In ciò che ho detto nelle Proposizioni precedenti ho dunque riunito tutto quello che può qualificarsi rimedio dei sentimenti, ossia tutto quello che la Mente, considerata in sé sola, ha in proprio potere nei riguardi dei sentimenti. Da quanto ho detto appare che il potere della Mente sui sentimenti consiste nelle seguenti facoltà o condizioni: i, Nella conoscenza stessa dei sentimenti; 2, Nella capacità della Mente di distinguere i sentimenti dal pensiero della loro causa esterna, che noi immaginiamo in maniera confusa; 3, Nella durata delle affezioni, che, qualora si riferiscano a cose che noi conosciamo, sono più durevoli di quelle che si riferiscono a cose che noi concepiamo in maniera confusa e mutila; 4, Nel gran numero di cause dalle quali si trovano rafforzate le affezioni che hanno riferimento alle proprietà comuni delle cose o a Dio; 5, Nell’ordine, infine, col quale la Mente può disporre i suoi sentimenti e concatenarli l’uno all’altro. Ma per render meglio apprezzabile questo potere della Mente sui sentimenti si deve notare anzitutto che noi chiamiamo grande un sentimento quando, per esempio, confrontiamo un sentimento di un umano con quello di un altro umano, e vediamo che l’uno degli umani risente del medesimo sentimento più dell’altro; o quando paragoniamo fra di essi i sentimenti di un solo e medesimo umano e riscontriamo che quell’umano è toccato, o mosso, più dall’un sentimento che dall’altro: la forza di un sentimento qualsiasi è infatti definita dalla potenza della causa esterna confrontata con la nostra potenza, ossia, nel caso specifico, con la potenza dell’umano considerato. Ma la potenza della Mente si definisce mediante la sola conoscenza; e l’impotenza, o passione, si valuta mediante la sola mancanza di conoscenza, vale a dire mediante ciò per cui le idee si dicono inadeguate: dal che si deduce che è passiva all’estremo quella Mente di cui la parte preponderante è costituita di idee inadeguate - tanto che essa è meglio riconoscibile in base a ciò in cui essa è passiva piuttosto che in base a ciò in cui essa è attiva; e si deduce ancora che è attiva all’estremo quella Mente di cui sono invece idee adeguate a costituire la parte preponderante - tanto che, sebbene questa Mente possa contenere tante idee inadeguate quante quella, essa è tuttavia meglio riconoscibile in base alle sue idee adeguate, che sono una prova della virtù umana, piuttosto che in base alle sue idee inadeguate, che dimostrano l’umana impotenza. Si deve poi notare che le infermità e gli scacchi dell’animo traggono origine soprattutto da un eccessivo Amore verso cose soggette a molti mutamenti e che noi non possiamo mai possedere pienamente: nessuno, infatti, è sollecito o ansioso di una qualche cosa, se non sia una cosa amata; e le offese, i sospetti, le inimicizie eccetera non nascono se non dall’Amore verso cose delle quali in realtà nessuno può essere il solo padrone. Di qui pertanto comprendiamo facilmente quanto potere una conoscenza chiara e distinta - e soprattutto quel terzo genere di conoscenza di cui abbiamo accennato nella II Parte, Chiarim. d. Prop. 47, e che ha per fondamento la stessa conoscenza di Dio - abbia sui sentimenti: che essa appunto, se non elimina in maniera assoluta in quanto sono passioni, riduce almeno al punto di costituire una parte trascurabile della Mente. E questa conoscenza genera poi un Amore verso ciò che è immutabile ed eterno e di cui noi possiamo realmente avere il pieno possesso; un Amore che per ciò stesso non può essere inquinato da alcuno dei difetti che hanno parte nell’Amore ordinario; e che anzi può farsi sempre maggiore, e può occupare la Mente in sommo grado, e largamente possederla.

Con quanto ho detto fin qui ho esaurito ciò che concerne questa vita presente. Ho detto all’inizio di questo Chiarimento d’aver raccolto in queste poche Proposizioni tutto ciò che può servire a governare e a render meno dannosi i sentimenti: e che questo corrisponda al vero è evidente per chiunque abbia fatto attenzione a ciò che ho detto in questo Chiarimento, e anche alle definizioni della Mente e dei suoi sentimenti, e inoltre alle Proposizioni 1 e 3 della Parte III. E’ ormai tempo, dunque, di passare a ciò che concerne la durata della Mente senza relazione all’esistenza del Corpo. (P. II, Prop. 45; Chiarim. d. Prop. 47; P. IV, Prop. 5; P. V, Prop. 2; Prop. 3; Chiarim. d. Prop. 4; Prop. 7 e 9; Chiarim. d. Prop. 10; Prop. 11, 12, 13, 14, 15, 16).

 

Prop. 21.

La Mente non può immaginare alcunché, né può ricordare le cose passate, se non mentre il Corpo esiste nella durata.

Dimostrazione: La Mente non esprime l’esistenza attuale (ossia in atto, ossia effettiva) del suo Corpo, e nemmeno concepisce le affezioni del Corpo come attuali (ossia provate effettivamente nel tempo), se non - è ovvio - fin che il Corpo esiste nella durata; e di conseguenza la Mente non pensa alcun corpo esterno come esistente se non mentre il Corpo esiste nella durata (solo mentre esiste, o dura, il Corpo può trasmettere alla sua Mente ciò che esso risente dei corpi esterni); e quindi la Mente non può immaginare alcunché, né ricordare cose passate, se non mentre il suo Corpo esiste nella durata. (P. II, Conseg. d. Prop. 8; Chiarim. d. Prop. 17; Chiarim. d. Prop. 18; Prop. 26).

 

Prop. 22.

In Dio c’è necessariamente un’idea che esprime 1’ essenza di questo e di quel Corpo umano nella sua peculiare eternità.

Dimostrazione: Dio è la causa non soltanto dell’esistenza di questo e di quel Corpo umano, ma anche dell’essenza di questo e di quel Corpo: essenza che perciò deve necessariamente esser concepita mediante la stessa essenza di Dio (la conoscenza dell’effetto dipende dalla conoscenza della sua causa), e ciò per una necessità eterna (l’impossibilità che la natura divina ha di non-esserci, e l’inevitabilità che dalla natura divina derivino tutti gli enti che possono esser concepiti in un intelletto infinito): e quindi il concetto dell’essenza di questo e di quel Corpo deve darsi in Dio necessariamente, con un carattere di eternità che può indicarsi - avendo riguardo all’eternità assoluta, propria di Dio - come peculiare del concetto in parola. (P. I, Ass. 4; Prop. 16; Prop. 25; P. II, Prop. 3).

 

Prop. 23.

La Mente umana non può dissolversi totalmente con il dissolversi del suo Corpo; ma di essa rimane un qualcosa, che è eterno.

Dimostrazione: Abbiamo visto or ora che in Dio c’è necessariamente un concetto, ossia un’idea, che esprime l’essenza del Corpo umano: idea che pertanto è necessariamente una realtà che appartiene all’essenza della Mente umana (la Mente, come è noto, è 1’idea del Corpo tutto quanto, sotto qualsiasi aspetto noi lo consideriamo). Ora, alla Mente umana non si può attribuire una durata - cioè un’esistenza che si svolge nel tempo e che si definisce per mezzo del tempo - se non in quanto la Mente esprime l’esistenza attuale (cioè in atto, effettiva) del suo Corpo: esistenza che si spiega mediante la durata e che si definisce per mezzo del tempo; e ciò significa che in questa visuale la Mente ha una durata soltanto mentre - e fin che - il Corpo esiste nel tempo. Ma, poiché l’essenza di un determinato Corpo, che si trova concepita per una necessità eterna mediante la stessa essenza di Dio, è in ogni caso una realtà, e una realtà eterna, che appartiene all’essenza della Mente corrispondente, l’idea in parola è appunto il qualcosa che nella Mente è eterno e che non si dissolve con la dissoluzione dell’umano considerato. (P. II, Conseg. d. Prop. 8; Prop. 13; P. V, Prop. 22).

Chiarimento: Come ho detto, quest’idea, che esprime l’essenza del Corpo nella sua peculiare eternità, è un determinato modo del pensare che appartiene all’essenza della Mente e che è necessariamente eterno. E’ tuttavia ovviamente impossibile che noi ricordiamo una nostra esistenza precedente all’avvento del Corpo: dato invero che di quell’esistenza non può trovarsi nel Corpo alcun vestigio, e che 1’eternità non può definirsi mediante la durata né può avere alcuna relazione col tempo, nel quale soltanto può trovar luogo l’idea di precedenza. E cionondimeno noi sentiamo di essere eterni; e possiamo averne - speculativamente - la prova. La Mente infatti ha, delle cose che essa concepisce con la sua facoltà di intellìgere, la stessa coscienza che ha delle cose che essa conserva nella memoria: dato che proprio le dimostrazioni sono gli occhi della Mente, con i quali essa vede e analizza la realtà (al dilà di quanto le è comunicato dai sensi del Corpo); e dunque, sebbene noi non ricordiamo di aver esistito prima del nostro Corpo (e in effetti non esistevamo nella forma che da vivi ci è propria), noi siamo certi che la nostra Mente, in quanto implica (cioè comprende, cioè ha fra i suoi elementi costitutivi) l’idea dell’essenza del nostro Corpo nella sua peculiare eternità, in tanto è eterna; e sappiamo che questa sua esistenza eterna non è tale da potere definirsi mediante il tempo né spiegarsi mediante la durata. Che la nostra Mente, la quale è eterna come ora abbiamo visto, duri, ossia che la sua esistenza possa esser definita mediante un determinato tempo, può affermarsi soltanto in quanto essa implica l’esistenza in atto del nostro Corpo; e solo a questa condizione essa ha il potere di comprendere e apprezzare l’esistenza delle cose nel tempo e di concepirle nella durata.

 

Prop. 24.

Quanto più noi conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio.

Dimostrazione: È evidente in base alla Conseguenza della Prop. 25 della Prima Parte.

 

Prop. 25.

Lo sforzo supremo della Mente, e la suprema espressione del suo valore (o della sua virtù), è il conoscere le cose mediante il terzo genere di conoscenza.

Dimostrazione: Il terzo genere di conoscenza (v. P. II, Prop. 40, Chiarim. 2°) procede dall’idea adeguata di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose; e quanto più noi conosciamo le cose in questo modo, tanto più conosciamo Dio: e quindi il supremo valore della Mente, o la sua suprema virtù, cioè la potenza o natura della Mente, ossia il supremo sforzo della Mente stessa, è il conoscere le cose col terzo genere di conoscenza. (P. III, Prop. 7; P. IV, Def. 8; Prop. 28; P. V, Prop. 24).

 

Prop. 26.

Quanto più la Mente è idonea a conoscere le cose col terzo genere di conoscenza, tanto più essa desidera conoscere cose con questo genere di conoscenza.

Dimostrazione: La cosa è evidente: in quanto, infatti, noi pensiamo che una Mente sia idonea a conoscere cose con questo genere di conoscenza, in tanto la pensiamo determinata a conoscere cose proprio con una conoscenza di questo stesso genere: e, di conseguenza (Defin. d. Sentim., 1), quanto più una Mente è idonea a questa conoscenza, tanto più la desidera.

 

Prop. 27.

Da questo terzo genere di conoscenza sorge la suprema soddisfazione interiore che nella Mente possa aver luogo.

Dimostrazione: La virtù suprema della Mente consiste nel conoscere Dio, ossia nell’intendere le cose col terzo genere di conoscenza; e questa virtù è tanto maggiore quanto più la Mente conosce cose con il detto genere di conoscenza: e pertanto chi conosce le cose con questo genere di conoscenza passa alla maggior perfezione che sia accessibile da un essere umano, e di conseguenza arriva a provare il massimo della Letizia: e poiché tale suprema Letizia è in lui accompagnata dall’idea di sé e della propria virtù, da questo genere di conoscenza sorge la suprema Soddisfazione interiore (o Acquiescenza in se stesso, o Pace dell’anima) che in un umano possa aver luogo. (P. II, Prop. 43; P. III, Defin. d. Sentim., 2, 25; P. IV, Prop. 28; P. V, Prop. 24 e 25).

 

Prop. 28.

Lo Sforzo (ossia la Cupidità) di conoscere le cose col terzo genere di conoscenza non può sorgere dal primo genere di conoscenza, ma invero dal secondo.

Dimostrazione: Questa Proposizione è evidente di per sé. Infatti, qualsiasi cosa che noi conosciamo in maniera chiara e distinta è una cosa che noi intendiamo o direttamente per sé, o mediante qualche altra cosa che possiamo concepire per sé; in altre parole, le idee che in noi sono chiare e distinte, cioè le idee che si riferiscono al terzo genere di conoscenza, possono derivare non da idee mutile e confuse (quelle che si riferiscono al primo genere di conoscenza), ma solo da idee adeguate, ossia dal secondo e dal terzo genere di conoscenza: e quindi la Cupidità di conoscere le cose col terzo genere di conoscenza non può sorgere dal primo genere, ma invero dal secondo. (P. II, Chiarim. 2° d. Prop. 40; P. III, Defin. d. Sentim., 1).

 

Prop. 29.

Non perché concepisce come presente l’esistenza attuale del Corpo la Mente conosce nella loro peculiare eternità tutte le cose che essa intèllige, ma perché concepisce l’essenza del Corpo nella sua peculiare eternità.

Dimostrazione: In quanto la Mente concepisce l’esistenza presente del suo Corpo, in tanto essa concepisce la durata, che può determinarsi mediante il tempo, e solo in tanto essa ha la facoltà (o il potere) di concepire le cose in relazione col tempo. Ma l’eternità non si può spiegare mediante la durata: e dunque la Mente, permanendo la condizione predetta, non ha il potere di concepire le cose nella loro peculiare eternità. Ma poiché è proprio della Ragione il concepire le cose nella loro peculiare eternità, e poiché appartiene alla natura della Mente anche il concepire l’essenza del Corpo nella sua peculiare eternità, e nient’altro appartiene all’essenza della Mente oltre a queste due facoltà di pensare, questo potere di concepire le cose nella loro peculiare eternità non appartiene dunque alla Mente se non in quanto essa concepisce l’essenza del Corpo nella sua peculiare eternità. (P. I, Def. 8 e sua Spiegazione; P. II, Prop. 13; Prop. 26; Conseg. 2a d. Prop. 44; P. V, Prop. 21; Prop. 23).

Chiarimento: Noi concepiamo le cose come attuali, o in atto, in due modi: o in quanto le pensiamo esistenti in un certo tempo e in un certo luogo, o in quanto le pensiamo contenute in Dio e conseguenti dalla necessità della natura divina. Le cose, allora, che sono pensate come vere, ossia reali, in questo secondo modo, sono da noi concepite nella loro peculiare eternità, e le loro idee implicano l’eterna e infinita essenza di Dio. (P. II, Prop. 45 e suo Chiarim.).

 

Prop. 30.

In quanto la nostra Mente conosce sé e il suo Corpo nella peculiare eternità dell’una e dell’altro, in tanto essa ha necessariamente la conoscenza di Dio, e sa di essere in Dio e di costituirne una manifestazione consapevole, e di avere in questo la sua ragion d’essere.

Dimostrazione: L’eternità è la stessa essenza di Dio in quanto tale essenza implica un’esistenza necessaria. Concepire (o pensare) le cose nella loro peculiare eternità significa pertanto concepirle in quanto esse possono esser pensate come enti reali per mezzo della (o grazie alla) essenza di Dio, ossia in quanto per mezzo della (o grazie alla) essenza di Dio esse implicano la propria esistenza; e quindi la nostra Mente, in quanto conosce se stessa e il suo Corpo nella peculiare eternità dell’una e dell’altro, in tanto ha necessariamente la conoscenza di Dio, e sa di essere in Dio e di poter essere pensata e capita come realtà solo per mezzo di Dio. (P. 1, Def. 8).

 

Prop. 31.

II terzo genere di conoscenza dipende dalla Mente come dalla sua causa formale (ossia dalla causa che lo rende quale esso è) in quanto la Mente stessa è eterna.

Dimostrazione: La Mente non concepisce alcunché nella sua peculiare eternità se non in quanto essa concepisce l’essenza del suo Corpo nella peculiare eternità di tale essenza, cioè se non in quanto essa Mente stessa è eterna; pertanto, in quanto è eterna, la Mente ha la conoscenza di Dio. Tale conoscenza è necessariamente adeguata: e quindi la Mente, in quanto è eterna, è idonea a conoscere tutto ciò che, posta la predetta conoscenza di Dio, può derivarne; ossia è idonea a conoscere le cose col terzo genere di conoscenza. Di questa conoscenza del terzo genere, pertanto, la Mente - in quanto è eterna - è causa adeguata, ossia causa formale.

Chiarimento: Quanto più, dunque, un umano è capace di questo genere di conoscenza, tanto meglio è cosciente di sé e di Dio, cioè tanto più è perfetto e beato: come si vedrà più chiaramente nel sèguito del lavoro. Ma occorre a questo punto notare che, anche se noi siamo già certi che la Mente è eterna (in quanto essa concepisce le cose secondo la loro peculiare eternità), qui continuerò tuttavia a considerarla - come ho fatto finora come se essa cominciasse appena adesso ad esistere, e come se appena adesso imprendesse a intelligere le cose nella loro peculiare eternità: e ciò al fine di render più facile a me esporre, e al lettore comprendere, ciò che voglio mostrare. Questa risoluzione può adottarsi senza alcun pericolo di errore, purché abbiamo l’avvertenza di non trarre alcuna conclusione se non da premesse perfettamente chiare.

 

Prop. 32.

Tutto ciò che noi conosciamo col terzo genere di conoscenza ci diletta, ossia ci procura piacere e letizia, e tale evento è invero accompagnato dall’idea di Dio come causa.

Dimostrazione: Da questo genere di conoscenza s’origina in noi la massima soddisfazione della Mente che possa darsi, cioè la massima Letizia: Letizia la cui causa noi identifichiamo con noi stessi, e di conseguenza anche con Dio. (P. III, Def. dei Sentim., 25; P. V, Prop. 27; Prop. 30).

Conseguenza: Dal terzo genere di conoscenza s’origina necessariamente l’Amore intellettuale di Dio. Da tale genere di conoscenza s’origina infatti una Letizia accompagnata dall’idea di Dio come causa: s’origina cioè un Amore che ha per oggetto Dio non in quanto noi l’immaginiamo presente, ma in quanto comprendiamo che egli è eterno: e questo è la realtà che io chiamo Amore intellettuale di Dio. (P. V, Prop. 29).

 

Prop. 33.

L’Amore intellettuale di Dio, che s’origina dal terzo genere di conoscenza, è eterno.

Dimostrazione: Il terzo genere di conoscenza è eterno (Prop. 31 qui sopra, e Ass. 3 della P. I): e perciò l’Amore, che sorge da questa conoscenza, è anch’esso necessariamente eterno.

Chiarimento: Sebbene questo Amore di Dio (Amore che è eterno) non abbia avuto inizio, esso ha però tutte le perfezioni dell’Amore, proprio come se avesse avuto inizio in un determinato momento (come ci siamo figurati nella Conseguenza della Proposizione precedente). Nel caso presente la sola differenza è questa, che la Mente (in quanto eterna) ha avuto nell’eternità queste medesime perfezioni che ho affermato a scopo didattico farsi proprie della Mente stessa soltanto ora, e le ha avute con 1’ accompagnamento dell’idea di Dio come causa eterna. E se la Letizia consiste nel passaggio ad una maggiore perfezione, la Beatitudine deve indubbiamente consistere nel possesso, da parte della Mente, della Perfezione stessa.

 

Prop. 34.

La Mente è soggetta a sentimenti che si riferiscono a passioni soltanto fin che il Corpo dura, ossia esiste nel tempo.

Dimostrazione: Un’immaginazione è un’idea mediante la quale la Mente considera una cosa come presente; e che però esprime lo stato (o la condizione) del Corpo in quel momento più di quanto esprima la natura della cosa esterna. Un sentimento è dunque un’immaginazione, in quanto indica la condizione presente del Corpo; e perciò la Mente è soggetta ai sentimenti che si riferiscono a passioni soltanto mentre, o fin che, il Corpo esiste nel tempo, o nella durata. (P. II, Conseg. 21 d. Prop. 16; Chiarim. d. Prop. 17; P. III, Defin. Gen. dei Sentim.; P. V, Prop. 21).

Conseguenza: Di qui deriva che nessun Amore è eterno, all’infuori dell’Amore intellettuale.

Chiarimento: Se badiamo all’opinione comune degli umani noi vediamo che essi sono sì consapevoli dell’eternità della loro Mente, ma che la confondono con la durata; e l’attribuiscono all’immaginazione, ossia alla memoria, che essi credono permanere dopo la morte.

 

Prop. 35.

Dio ama se stesso con un Amore intellettuale infinito.

Dimostrazione: Dio è assolutamente infinito, cioè la natura di Dio gode di una perfezione infinita, e ciò con l’accompagnamento della sua propria idea, ossia - poiché Dio è causa di sé - con l’accompagnamento dell’idea della sua propria causa: e questo è ciò che nella Conseguenza della Prop. 32 qui sopra ho detto essere l’Amore intellettuale.

 

Prop. 36.

L’Amore intellettuale della Mente verso Dio è lo stesso Amore di Dio, cioè l’Amore con cui Dio ama sé medesimo: non in quanto Dio è infinito, ma in quanto egli può esprimersi, o spiegarsi, mediante l’essenza della Mente umana considerata nella sua peculiare eternità: vale a dire, l’Amore intellettuale della Mente verso Dio è una parte dell’infinito Amore col quale Dio ama se stesso.

Dimostrazione: Questo Amore della Mente deve essere classificato tra le azioni della Mente: esso è quindi un’azione con la quale la Mente considera se stessa, accompagnando questa considerazione con l’idea di Dio come causa; un’azione, cioè, con la quale Dio - in quanto egli può esprimersi mediante una Mente umana - considera se stesso, accompagnando questa considerazione con 1’ idea di se stesso come causa di sé. Questo Amore della Mente è dunque una parte dell’Amore infinito col quale Dio ama se stesso. (P. I, Conseg. d. Prop. 25; P. II, Conseg. d. Prop. 11; P. III, Prop. 3).

Conseguenza: Da questo deriva che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli umani; e, di conseguenza, che l’Amore di Dio verso gli umani e l’Amore intellettuale della Mente verso Dio sono il medesimo e unico Amore.

Chiarimento: Da quanto precede comprendiamo ora chiaramente in che cosa consiste la nostra Salvezza, o Beatitudine, o Libertà: appunto in un costante ed eterno Amore verso Dio, ossia nell’amore che Dio ha per gli umani. E questo Amore, o Beatitudine, è chiamato nelle sacre Scritture ebraiche Gloria, e non a torto. Questo Amore, infatti, sia che esso si riferisca a Dio, sia che si riferisca alla Mente umana, può correttamente chiamarsi Soddisfazione interiore o Autocompiacimento o Pace dell’anima: e in realtà una tale condizione non si distingue dalla Gloria (v. P. III, Defin. d. Sentim., 25 e 30). In quanto, infatti, questa condizione si riferisce a Dio, essa è una Letizia (mi si permetta di usare questo termine anche ora) accompagnata dall’idea di sé: come abbiamo visto che è in quanto si riferisce alla Mente.

Poiché, inoltre, l’essenza della nostra Mente consiste nella sola conoscenza, della quale il principio e il fondamento è Dio, ne risulta evidente in qual modo e per quale ragione la nostra Mente sia un’espressione della natura divina tanto nella sua essenza quanto nella sua esistenza, e dipenda immediatamente da Dio: cosa, questa, che m’è sembrato valer la pena di sottolineare a questo punto, per mostrare con questo esempio quanto valga quella conoscenza delle cose singole che ho chiamato intuitiva o del terzo genere, e quanto essa sia migliore e di maggior valore della conoscenza che ho chiamato di secondo genere e che si basa sulle nozioni comuni. Infatti, sebbene nella Prima Parte io abbia mostrato in generale che tutte le cose (e di conseguenza anche la Mente umana) dipendono da Dio quanto all’essenza e quanto all’esistenza, quella dimostrazione, per quanto essa sia conforme alle norme e indenne da rischi di dubbio, non impressiona la nostra Mente come l’impressiona la medesima conclusione che si tragga dall’essenza stessa di ognuna delle cose singole che dipendono da Dio.

 

Prop. 37.

Nulla c’è in natura che sia contrario a questo Amore intellettuale, ossia che possa annullarlo o farlo scomparire.

Dimostrazione: Questo Amore intellettuale deriva necessariamente dalla natura della Mente (o ne è un’espressione) in quanto tale natura, che si spiega per mezzo della natura di Dio, è considerata una verità eterna. (Prop. 29 e 33 qui sopra). Se dunque si desse una qualche cosa che fosse contraria a questo Amore, quella cosa sarebbe contraria al vero; e di conseguenza ciò che potesse annullare o fare scomparire o distruggere questo Amore farebbe si che ciò che è vero fosse non-vero: il che è notoriamente assurdo. Dunque in natura non c’è alcunché che sia contrario all’Amore intellettuale, ossia che possa annullarlo o farlo scomparire.

Chiarimento: L’Assioma della Quarta Parte, secondo cui non c’è in natura cosa alcuna che non possa esser distrutta da un’altra cosa più potente, concerne le cose singole in quanto esse sono considerate in relazione con un tempo e un luogo determinati: e credo che nessuno abbia dubbi a questo riguardo.

 

Prop. 38.

Quante più sono le cose che la Mente conosce col secondo e col terzo genere di conoscenza, tanto meno essa è passiva rispetto ai sentimenti cattivi, ossia tanto meno ne soffre, e tanto meno teme la morte.

Dimostrazione: L’essenza della Mente consiste nella Conoscenza: quindi, quante più cose la Mente conosce col secondo e col terzo genere di conoscenza, tanto maggiore è la parte che di essa permane, e di conseguenza tanto maggiore è la parte che in essa è intangibile dai sentimenti che sono contrari alla nostra natura, che cioè sono cattivi. Quante più, pertanto, sono le cose che la Mente conosce col secondo e col terzo genere di conoscenza, tanto maggiore è la parte di essa che resta indenne dai sentimenti cattivi, e tanto meno essa soffre a cagione di quei sentimenti.

Chiarimento: Questa considerazione ci fa comprendere ciò che ho appena accennato nella P. IV, Chiarim. d. Prop. 39, e che ho promesso di spiegare in questa Parte: appunto, che la Morte è tanto meno temibile e dannosa quanto maggiore è la conoscenza chiara e distinta che la Mente possiede, e di conseguenza quanto maggiore è l’Amore della Mente verso Dio. Inoltre, poiché dal terzo genere di conoscenza s’origina la massima possibile Soddisfazione interiore (o Autocompiacimento, o Pace dell’Anima), ne deriva che la Mente umana può arrivare ad avere una natura tale (o può conseguire una condizione tale) che ciò che di essa abbiamo visto destinato a perire col Corpo non abbia alcuna importanza rispetto a ciò che di essa permane. Ma questo sarà trattato più ampiamente fra poco.

 

Prop. 39.

Chi possiede un Corpo (ossia una struttura somatico-nervosa) adatto ad un gran numero di operazioni, possiede una Mente di cui la maggior parte è eterna.

Dimostrazione: Chi ha una struttura somatico-nervosa idonea ad effettuare un gran numero di operazioni è pochissimo travagliato da sentimenti cattivi, cioè da sentimenti contrari alla nostra natura, e perciò ha il potere di ordinare e di concatenare le affezioni del Corpo secondo un ordine razionale; e di conseguenza è in grado di far sì che tutte le affezioni del suo Corpo si riferiscano all’idea di Dio. Ora, un umano in queste condizioni prova necessariamente un Amore verso Dio: un Amore che, alimentato da tutte le affezioni del Corpo, deve arrivare ad occupare, ossia a costituire, la parte maggiore della Mente; e quindi l’umano considerato arriverà per ciò stesso a possedere una Mente (o, più propriamente ad essere una Mente) la cui massima parte è eterna. (P. IV, Prop. 30; Prop. 38; P. V, Prop. 10; Prop. 14, 15, 16; Prop. 33).

Chiarimento: Poiché ci sono Corpi umani idonei ad una quantità di operazioni, non v’è dubbio che essi possano essere di natura tale da corrispondere a Menti che hanno una grande conoscenza di sé e di Dio, e delle quali la parte maggiore o principale è eterna, e le quali pertanto temono poco o nulla la morte. Per capire meglio queste affermazioni si deve però notare, a questo punto, che noi viviamo in un mutamento continuo, e a seconda del nostro mutare in meglio o in peggio ci consideriamo, o siamo considerati, felici o infelici. Chi infatti passa dalla condizione di infante o di bambino alla condizione di cadavere vien detto infelice; viceversa, si considera una felicità l’aver potuto percorrere l’intera durata della vita conservando una Mente sana in un Corpo sano. E in effetti chi, come un infante o un bambino, ha un Corpo idoneo a pochissime operazioni e dipende quasi in tutto da fattori esterni, ha anche una Mente che, considerata in sé sola, non è se non in misura minima cosciente di sé e di Dio e delle cose; mentre, al contrario, chi ha un Corpo idoneo ad un gran numero di operazioni ha anche una Mente che, considerata in sé sola, di sé e di Dio e delle cose è ampiamente conscia. Nella nostra vita, pertanto, l’obiettivo su cui abbiamo un interesse primario ad orientarci è quello di far si che il Corpo della nostra infanzia si trasformi – per quanto la sua natura lo permette e in quanto ciò gli è giovevole – in un altro Corpo, che sia idoneo ad un gran numero di operazioni e che corrisponda ad una Mente largamente consapevole di sé e di Dio e delle cose: così che in noi - come ho già detto nel Chiarimento della Proposizione precedente - tutto ciò che si riferisce alla memoria e all’immaginazione abbia un’importanza trascurabile rispetto a ciò in cui è attivo l’intelletto.

 

Prop. 40.

Quanto è maggiore la perfezione che una cosa possiede, tanto più quella cosa è attiva e tanto meno è passiva; e, viceversa, quanto più essa è attiva, tanto più è perfetta.

Dimostrazione: Ogni cosa, quanto più è perfetta, tanto maggiore realtà possiede, e di conseguenza tanto più è attiva e tanto meno è passiva. Questa Dimostrazione poi procede anche nell’ordine inverso, da cui deriva che una cosa, viceversa, è tanto più perfetta quanto più è attiva. (P. II, Def. 6; P. III, Prop. 3 e suo Chiarim.).

Conseguenza: Di qui risulta che la parte della Mente che permane, di qualunque entità essa sia, è più perfetta della parte residua, che non permane. Infatti la parte eterna della Mente è l’intelletto, grazie soltanto al quale si può dire che noi siamo attivi; la parte invece che abbiamo mostrato peritura è l’immaginazione, che è la sola cagione del nostro esser passivi: e dunque la parte che permane, ossia la parte eterna, qualsiasi quota della Mente essa rappresenti, è più perfetta di quella la cui esistenza è legata alla durata. (P. III, Prop. 3; P. V, Prop. 21, 23, 29, 40).

Chiarimento: Queste sono le cose che avevo programmato di mostrare a proposito della Mente nel suo esistere indipendentemente dall’esistenza del Corpo: e da queste cose - come anche dalla Prop. 21 della Prima Parte e da altri passi - appare che la nostra Mente, in quanto conosce o intèllige, è un modo eterno del pensare, che è determinato da un altro modo eterno del pensare, e questo a sua volta da un altro, e così all’infinito: in modo tale che tutti questi modi, insieme, costituiscono l’eterno ed infinito intelletto di Dio.

 

Prop. 41.

Anche se non sapessimo che la nostra Mente è eterna noi considereremmo tuttavia più importanti di ogni altra cosa il Civismo consapevole e la Religiosità, e, in assoluto, tutti i comportamenti che nella Quarta Parte abbiamo mostrato riferirsi alla Determinazione e alla Magnanimità.

Dimostrazione: Il primo e unico fondamento della virtù, cioè del corretto orientamento del vivere, è la ricerca del proprio utile: vedi la Parte Quarta, Conseg. d. Prop. 22 e Prop. 24. Ma quando in quella sede abbiamo determinato ciò che la Ragione prescrive come utile non abbiamo tenuto in alcun conto l’eternità della Mente, di cui siamo venuti a conoscenza solo ora, in questa Quinta Parte: e quindi noi abbiamo considerato più importante di ogni altra cosa ciò che si riferisce alla Determinazione e alla Magnanimità nonostante che in quell’occasione ignorassimo che la Mente è eterna, o può essere tale in varia misura. Quindi, anche se tuttora fossimo all’oscuro dell’eternità della Mente, noi considereremmo più importanti d’ogni altra cosa le prescrizioni della Ragione che abbiamo or ora citato.

Chiarimento: La convinzione della gente, in generale, sembra essere nettamente diversa. In maggioranza, infatti, la gente mostra di credere che la libertà degli individui è proporzionata al poter obbedire alle proprie voglie, e che, in quanto essi sono obbligati a vivere secondo le norme di una legge divina, in tanto rinunciano ai propri diritti. Essi infatti sono persuasi che il Civismo consapevole e la Religiosità, e, in assoluto, tutto ciò che ha relazione con la Fortezza d’animo, siano oneri, o pesi, che essi sperano di deporre dopo la morte; come sperano di ricevere allora il compenso della loro schiavitù, che essi identificano con il Civismo consapevole e con la Religiosità. E non è solo questa speranza a dar loro la forza di sopportare quei pesi; ma è, soprattutto, il timore di esser puniti con crudeli supplizi dopo la morte a persuadere gli umani a vivere secondo le norme della legge divina - per quanto, almeno, glielo permettono la loro pochezza e il loro animo impotente: ché se gli umani non fossero imbrigliati da questa Speranza e da questo Timore, ma credessero invece che le anime muoiano con la morte dei corpi e che per i disgraziati sfiniti dal peso dei loro doveri non ci sia prospettiva di alcun sopravvivere, essi si volgerebbero di nuovo al loro istinto e sceglierebbero di regolare ogni cosa secondo le proprie voglie e di affidarsi al caso piuttosto che imporsi regole di vita. Cose, queste, che a me sembrano non meno assurde della scelta che qualcuno facesse, di rimpinzarsi di cose dannose e di veleni nella convinzione di non potere cibarsi in eterno di buoni alimenti; o dell’altra scelta di chi, vedendo che la Mente non è eterna, o immortale, preferisse perciò essere pazzo mentre la Mente dura e vivere senza Ragione: scelte, appunto, tanto assurde, da meritare a stento che se ne accenni.

 

Prop. 42.

La Beatitudine non è il premio della Virtù: ma la Virtù medesima è premio a se stessa e beatitudine; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre inclinazioni irrazionali, ma, al contrario, siamo in grado di reprimere le nostre inclinazioni irrazionali perché godiamo della Beatitudine.

Dimostrazione: La Beatitudine consiste nell’Amore verso Dio, e questo Amore sorge dalla conoscenza di terzo genere; questo Amore, perciò, deve riferirsi alla Mente in quanto essa è attiva: e perciò s’identifica con la virtù; e questo è il primo punto. Inoltre -secondo punto - quanto più la Mente gode di questo Amore divino, o Beatitudine, tanto più essa conosce o intèllige, ossia tanto maggior potere essa ha sui sentimenti, e tanto meno è passiva rispetto ai sentimenti che sono cattivi: per il suo godere di questo Amore divino o Beatitudine, quindi, la Mente ha il potere di reprimere le voglie - o inclinazioni irrazionali, o appetiti sregolati - che sorgono in essa; e come la potenza che l’Uomo ha di coartare i sentimenti consiste soltanto nell’intelletto, nessuno dunque gode della Beatitudine perché ha coartato i propri sentimenti (sregolati), ma, viceversa, il potere di coartare o reprimere le proprie voglie s’origina dalla stessa Beatitudine posseduta. (P. III, Prop. 3; Prop. 59; P. IV, Def. 8; P. V, Conseg. d. Prop. 3; Prop. 32 e sua Conseg.; Prop. 36; Prop. 38).

Chiarimento: Con questo ho esaurito tutto ciò che volevo mostrare a proposito del potere della Mente sui sentimenti e a proposito della Libertà della Mente. Da ciò che ho esposto risulta chiaro quanto possa il Saggio, e quanto egli valga più dell’Uomo grezzo, o Uomo carnale, che agisce soltanto per ricavarne vantaggi immediati ed angusti. L’Uomo carnale, oltre che essere agitato in molti modi dalle cause esterne e non arrivar mai a godere di una vera Soddisfazione interiore, vive quasi inconsapevole di sé e di Dio e delle cose, e come cessa di patire cessa anche di essere. Il Saggio invece, in quanto è davvero tale, ben difficilmente incontra cagioni di turbamento interiore; e non cessa mai - per una precisa necessità eterna: ossia perché, in assoluto, la massima parte della sua Mente esiste nell’Eternità - di essere cosciente di sé e di Dio e delle cose; e sempre possiede e gode la vera Soddisfazione interiore o Pace dell’anima.

Ora, se la via che ho mostrato condurre a questa condizione di Letizia inalterabile [(v. qui sopra, Prop. 36, Chiarim., a mezzo)] sembra difficilissima, essa però può essere percorsa. Certo deve essere difficile ciò che si vede conseguito così di rado. Se la Salvezza fosse a portata di mano e potesse esser trovata senza una grande fatica, è mai possibile che quasi tutti gli umani rinunciassero a cercarla? Il fatto è che tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.