Indice

ANASSIMANDRO

Vita

Anassimandro di Mileto, vissuto tra il 610 e il 546 a.C. circa, è una figura fondamentale nella storia del pensiero greco antico. Fu un allievo di Talete e, insieme a lui, rappresenta una delle prime figure della scuola ionica di filosofia, caratterizzata dall'interesse per la spiegazione razionale dei fenomeni naturali. Anassimandro è considerato il primo filosofo a scrivere un'opera di natura filosofica e scientifica, anche se la sua opera principale, il “Peri Physeos” (Sulla Natura), è andata perduta e ci è giunta solo in frammenti e attraverso testimonianze successive.

L’àpeiron

Un passo in avanti ancora più marcato si compie con Anassimandro, in quanto il principio unificante, l’arché, secondo Anassimandro, è l’àpeiron, termine che si può tradurre abbastanza bene come indeterminato, illimi­tato (non direi tanto infinito, perché l’infinito, come ha insegnato un grande studioso italo-argentino, Rodolfo Mondolfo, era un concetto estra­neo ai greci, anzi per loro era qualcosa di negativo).

Anassimandro sostiene che l’arché, quello che è presente dappertutto, quello che è in tutte le cose è l’àpeiron, cioè l’illimitato, l’indeterminato. E chiaro che siamo di fronte ad un concetto più astratto.

Che cos’è l’àpeiron di Anassimandro? Credo che si possa spiegare bene partendo da una delle molteplici attività di Anassimandro, che era anche cartografo, cioè disegnava mappe. Se pensate ad un foglio su cui viene di­segnata una mappa, che cosa presenterà questo foglio? Uno sfondo indefi­nito, indeterminato (che appunto in greco si dice ápeiron), sul quale a mano a mano si vengono a definire coste, montagne, insomma quello che dise­gneremo sul foglio. Che cosa vuol dire questo? Che ogni singola figura geo­metrica che io possa disegnare sulla lavagna, oppure le coste e le montagne che Anassimandro disegna sul suo papiro, sono qualche cosa di definito, in greco sono péiras, cioè sono cose precise, delimitate, definite, il contrario dell’ápeiron, ma queste cose definite, determinate, delimitate, sono strettamente connesse con lo sfondo: non si può togliere la lavagna senza togliere il triangolo o il cerchio che ci ho disegnato sopra, non posso togliere il pa­piro senza togliere anche la carta geografica che è disegnata sopra di esso.

Che cosa voleva dire Anassimandro? **Tutte le cose hanno in sé l’indetermi­nato, il tutto**. Il tutto, l’indeterminato, l’illimitato, non è qualche cosa di esterno rispetto al mondo.

L’indeterminato quindi è presente in ogni cosa, perché tutte le cose si stagliano, si ritagliano all’interno dell’indefinito, all’interno dell’àpeiron, quindi l’ápeiron è presente dappertutto, perché ogni cosa, anche se dà l’im­pressione di essere distaccata, individuale, inconfondibile con il resto, è in­vece collegata a tutto il resto in quanto è una parte del tutto: ognuno di noi è come una figura sulla lavagna, non è possibile distaccarsi dallo sfondo su cui si staglia la nostra individualità, la nostra personalità.

Probabilmente un’altra immagine che Anassimandro aveva sotto gli occhi era quella di una zolla di terra. Anassimandro avrà fatto questa considerazione: si immagini una zolla di terra brulla, apparentemente sterile come si presenta in inverno, caotica, omogenea, poi a primavera cominciano a emergere da que­sta zolla di terra una serie di forme che sono cespugli, fiori, piante, fili d’erba ecc. Questi sono i péiras, cioè le cose definite, determinate, ma le cose definite, determinate, i fiori, le erbe, i cespugli ecc. non potranno esi­stere se non nella loro connessione con la terra, alla quale poi tornano.

Tutto nasce da questo sfondo indistinto, dalla materia, e tutto ritorna a que­sta materia indistinta dopo che, per un certo lasso di tempo, ne è emersa, si è configurata distaccandosi dal tutto.

Su Anassimandro possiamo soffermarci un attimo di più perché abbiamo la fortuna di avere poche parole sicuramente sue. Leggiamo l’unico frammento che dà luogo a due interpretazioni diverse e molto suggestive:

«Principio degli esseri è l’indeterminato […] da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi debbono pagare [reciprocamente] la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».

E’ effettivamente una frase molto difficile da interpretare. Vediamo le due interpretazioni che ne sono state date.

Prima interpretazione

Consideriamo prima l’interpretazione più antica, che era quella in cui non c’era la parola “reciprocamente” (allelois). Se manca la parola “reciprocamente” si dice che tutti gli esseri emergono dall’indeterminato, emergono dall’àpeiron, e lì hanno la loro origine, però devono per forza scomparire, devono morire in quanto devono pagare la pena e l’espiazione dell’ingiustizia. Si dice che tutti gli esseri devono pagare per un’ingiustizia, ma quale sarà l’ingiustizia che hanno commesso?

Nietzsche, Rhode, chi sostiene che il frammento non presenta quel termine, dà un’interpretazione molto radicale: l’ingiusti­zia sarebbe addirittura la nascita. Esiste il tutto, esiste l’àpeiron, il venire fuori dall’àpeiron, l’esistere stesso delle cose singole sarebbe un’ingiustizia.

Nella civiltà greca si ritrova un filone pessimistico di questo genere. Sofo­cle fa dire a un suo personaggio: “Meglio sarebbe stato non essere mai nati”. Il fatto puro e semplice di nascere, l’esistenza, sarebbe un male. “Esi­stenza” viene da ex istemi, in greco, oppure da ex sto in latino, significa “stare fuori”, quindi già nella parola esistenza è compreso questo concetto, che è uno stare fuori. Stare fuori da che cosa? Stare fuori dal tutto, in ter­mini appunto anassimandrei, esistere significa stare fuori dall’àpeiron.

Se­condo questa interpretazione, la colpa che gli esseri debbono pagare sa­rebbe la colpa di esistere, cioè la pura e semplice esistenza sarebbe una colpa, la colpa di essersi distaccarti dal tutto, ma il tutto, l’àpeiron, rifago­cita in sé. Tutto emerge dalla terra quasi come se ci fosse, in termini greci, una ùbris, una tracotanza, delle cose che vogliono per forza venire fuori, ma la terra inevitabilmente le riassorbe, secondo necessità, come dice il frammento, le riprende in sé, le inghiotte, le fa scomparire. Come se l’esistere fosse una colpa.

Questa è un’interpretazione molto drammatica, molto pessimistica. Ma dopotutto non ci è estranea, perché nella tradizione del cristianesimo c’è il problema del peccato originale, cioè il peccato originale implica proprio questo, che uno semplicemente per il fatto di nascere già ha commesso una colpa.

È un grosso problema, è un grande mistero, però è già presente nella mentalità greca. Quale sarebbe il peccato? Il peccato appunto, secondo la tradizione cristiana, è l’essersi ribellati a Dio, secondo il greco Anassimandro avrebbe potuto significare il ribellarsi al tutto, il voler emergere dal tutto.

Questo concetto è presente pure in alcuni aspetti della psicanalisi contemporanea: la possibilità di un senso di colpa legato proprio alla nascita, è segnalata dal “senso oceanico” cioè dalla forte esigenza dell’individuo di tornare ad annientarsi nel tutto.

Questo concetto di Anassimandro, per cui l’esistenza è una colpa, a prima vista suona stranissimo, ma in fondo da una parte nel cristianesimo col peccato originale, dal­l’altra parte in certe osservazioni della psicanalisi, non è estraneo alla nostra mentalità.

Interpretazioni più recenti

Veniamo invece ad interpretazioni più recenti, quando Diels, ha sostenuto, e pare che abbia ragione, che ci deve essere la parola allelois, che non si riusciva a leggere nei primi frammenti che sono venuti alla luce. Al­lora rileggiamo tutto il frammento:

«Principio degli esseri è l’indeterminato […] da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi debbono pagare reciprocamente la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».

Va notato prima di tutto il forte concetto, “secondo necessità”: è uno dei grandissimi concetti che ci ha dato la civiltà greca, cioè tutto il mondo brulicante degli es­seri particolari si riconnette ad un’unica legge, non è possibile concepirlo come qualche cosa che vive in maniera arbitraria e secondo proprie volontà, ma vive secondo necessità: ogni singolo esistente è collegato al tutto, è collegato all’àpeiron secondo leggi necessarie. Nessuno di noi, nessun evento, nessun individuo, nessuna comunità, oppure nessun essere animato, niente è sconnesso dal tutto, ed è connesso al tutto non in maniera casuale, bensì secondo leggi necessarie. Le leggi sono ineluttabili, c’è que­sto concetto di un ordine della natura.

Il primo che ha avuto l’idea di un mondo ordinato è appunto Anassimandro. Il mondo è dominato da una necessità che gli dà armonia, gli dà legge. Che cosa devono pagare gli uni agli altri, gli individui, le cose viventi? Debbono pagare e pagano inevitabilmente nel caso che commettano l’unico peccato che i greci hanno concepito, cioè la ùbris: ognuno ha un posto assegnato, è chiaro che questa se­conda interpretazione si riferisce molto al mondo dell’uomo, cioè ognuno ha un suo posto stabilito dal destino, quello che deve fare, la propria parte, e deve capire bene qual è la propria collocazione all’interno dell’àpeiron, al­l’interno della totalità; l’ordine della totalità ad un certo punto emerge e si impone, quindi se si compie il peccato di ùbris, cioè si pretende di avere, di fare, di svolgere un ruolo maggiore di quello che ci compete, allora si ha, secondo l’ordine del tempo, pena ed espiazione.

C’è questo concetto originario greco: se qualcuno pretende di turbare l’ordine del tutto, di occupare uno spazio che non è quello che gli compete all’interno della totalità dell’àpeiron, è come se volesse assurdamente rompere leggi necessarie, ma queste leggi, appunto perché sono necessarie, si prendono la rivincita e ri­stabiliscono inevitabilmente l’ordine, la giustizia, l’equilibrio.

Quindi, nella seconda interpretazione, il frammento di Anassimandro sarebbe molto le­gato a una concezione cosmica di tutta la realtà, che è ricavata dalla concezione della polis come egli la vede: nella polis ognuno deve avere un ruolo, ognuno deve saper svolgere la sua parte, ognuno deve avere nei rapporti umani la sua collocazione, se qualcuno invece pretende di svolgere un ruolo che non gli compete, pecca per eccesso o per difetto, ma inevitabilmente l’ordine viene ristabilito.

Questo concetto nasce dalla polis, ma anche in questa seconda interpretazione, possiamo vederlo come un fatto della natura più in generale: se noi pensiamo a quella zolla di terra a cui ho paragonato l’àpeiron, c’è una legge dolorosa ma necessaria della natura. Se a primavera sono fioriti dei fiori, sono nati dei frutti, sono venuti su dei cespugli, dei fili d’erba ecc. essi devono necessariamente morire, devono se­condo necessità, secondo l’ordine del tempo, lasciare lo spazio a quello che verrà dopo, se non muoiono, se non ricadono nella terra, se non la fecondano di nuovo, non potranno venire fuori altre forme, altri fiori, altri frutti ecc, cioè, trasporto sul piano della natura, questo frammento significherebbe, che l’àpeiron è indeterminato, ma non è infinito: perché nascano nuovi esseri, perché ci sia spazio per altro, qualche cosa deve morire, deve lasciare spazio ad altro. Inevitabilmente un fiore deve per forza deperire, deve sciogliersi nelle sue componenti chimiche, diremmo oggi, deve ritornare nella zolla di terra e deve dare spazio ai futuri fiori che nasceranno dopo. Quindi ineluttabilmente, secondo l’ordine del tempo, la morte è il destino di tutti gli esseri o di tutte le cose che esistono.

La teoria evoluzionistica di Anassimandro

Anassimandro elabora anche una sua teoria sull’origine degli esseri viventi e del mondo naturale, ed è interessante perché anticipa, in qualche modo, concetti che molto più tardi diventeranno fondamentali nell’evoluzionismo.

Anassimandro riteneva che la vita si fosse originata dall’umido, una sostanza primaria, probabilmente collegata all’acqua, che egli considerava come il substrato primordiale da cui tutte le cose avevano avuto origine. Sosteneva che le prime forme di vita fossero sorte in ambienti umidi e che successivamente avessero sviluppato la capacità di adattarsi ad altre condizioni.

Uno dei suoi contributi più innovativi fu l’idea che gli esseri umani non fossero esistiti fin dall’inizio in forma completa. Secondo lui, i primi esseri viventi erano forme semplici, probabilmente creature acquatiche simili ai pesci, e gli esseri umani si sarebbero evoluti a partire da queste forme primitive. La sua argomentazione derivava dall’osservazione che i neonati umani, al momento della nascita, sono incapaci di sopravvivere da soli e hanno bisogno di cure prolungate. Anassimandro dedusse che, se gli esseri umani fossero stati sempre stati così, non avrebbero potuto sopravvivere fin dall’inizio della vita sulla Terra. Questo suggerisce che gli umani avessero avuto un’origine differente e che fossero stati in passato simili a creature capaci di vivere autonomamente sin dall’inizio, come i pesci.

Anassimandro, pur non avendo una teoria evolutiva nel senso moderno del termine (come quella di Darwin), ha anticipato alcuni concetti chiave che sono in qualche modo correlati all’idea di evoluzione:

CREDITI

Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.