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PARMENIDE

Parmenide di Elea

Parmenide nacque intorno al 515 a.C. a Elea (o Velia), una città della Magna Grecia che si trovava lungo la costa tirrenica dell’Italia meridionale, nella regione che oggi è la Campania. La città era culturalmente fiorente e politicamente ben organizzata, un ambiente che favoriva lo sviluppo di scuole di pensiero.

In particolare, Elea divenne il centro della Scuola eleatica, un movimento filosofico che cercava di esplorare le questioni fondamentali dell’essere e della realtà. Parmenide è considerato il fondatore e la figura centrale di questa scuola.

Molto probabilmente Parmenide è stato influenzato dalla tradizione orfica. La sua conoscenza delle dottrine precedenti, come quella di Anassimandro e di Eraclito, è testimoniata dai suoi contrasti con il concetto di divenire e trasformazione.

Una leggenda, riportata da Platone nel dialogo Parmenide, narra di un incontro tra Parmenide, ormai anziano, e il giovane Socrate, ad Atene. In questo racconto, Platone descrive Parmenide come un uomo saggio, già nel pieno della sua carriera filosofica, che discute con Socrate temi riguardanti l’essere e le idee. Tuttavia, non è chiaro se questo incontro sia effettivamente avvenuto o sia solo un’invenzione letteraria di Platone.

Non si conosce con certezza la data della morte di Parmenide, ma si ritiene che sia avvenuta intorno al 450 a.C. Non ci sono dettagli specifici sui suoi ultimi anni di vita, ma sembra che abbia continuato a essere una figura di rilievo all’interno della comunità di Elea fino alla fine.

La sua scuola filosofica fu portata avanti da Zenone di Elea, suo allievo più famoso, noto per aver sviluppato i paradossi contro la possibilità del movimento e del cambiamento. Questi paradossi, apparentemente paradossali ma logicamente stringenti, avevano lo scopo di difendere e approfondire le tesi di Parmenide, mostrando le contraddizioni insite nelle visioni filosofiche alternative.

Il pigarorismo e la sua influenza su Parmenide

Con Parmenide c’è un salto nel puro pensiero, anche se egli non prescinde completamente dal contatto con la realtà sensibile.

Con Parmenide entriamo pienamente in contatto col pensiero astratto. Abbiamo considerato i naturalisti ionici, i quali hanno identificato l’arché in un elemento materiale. Pitagora dà inizio alla filosofia non più naturalistica, bensì intellettualistica: per lui l’arché è un numero.

Da un certo punto di vista il testo che ci è pervenuto di Parmenide (Perì physeos) ricorda certi temi del pitagorismo: non si presenta come un testo di filosofia, ma inizia con un proemio in cui il filosofo viene rapito su un carro portato da cavalle che lo innalzano verso l’alto: c’è una descrizione che sa di percorso iniziatico. Il fatto di esprimersi in esametri, il fatto di appellarsi a varie divinità, il fatto di trovarsi di fronte a una biforcazione tra la via della verità e la via dell’opinione sembrano riprendere il cammino iniziatico, segreto, di chi apparteneva alla scuola pitagorica che, come abbiamo visto, era il risvolto della religione misterica orfica.

Nelle tombe dei pitagorici in alcuni casi vengono ritrovate delle “Y”: queste “Y”, sono interpretate nel senso che l’uomo si trova sempre di fronte a un bivio, il bivio tra il vizio e la virtù, il suo destino eterno è segnato dall’atteggiamento che l’uomo prende rispetto a questo bivio che si ripresenta di continuo nel corso dell’esistenza.

Ora, la descrizione che Parmenide fa del suo viaggio è riconducibile a questa biforcazione; ci sono due vie: la via dell’essere che è, la via del non essere che non è; se si sceglie la prima, la via della verità, si arriva alla salvezza della conoscenza, si arriva alla luce, se si prende l’altra via, la via dell’opinione, si rimane immersi nelle tenebre, ci si perde. Parmenide probabilmente ha posto in termini intellettuali la visione orfica e pitagorica della vita dell’uomo che si trova di continuo di fronte a un bivio tra virtù e vizio, tra sapienza e ignoranza, tra luce e tenebre. E’ dunque da tenere presente l’ascendente pitagorico di questo pensatore, che Platone ha descritto come “venerando e terribile”.

Senofane e la sua influenza su Parmenide

Sul percorso da Pitagora a Parmenide troviamo l’apporto di un altro pensatore notevole, Senofane. Si è visto in Senofane un maestro di Parmenide. Oggi alcuni studiosi sostengono che Senofane avrebbe insegnato a Parmenide semplicemente l’arte del verso (l’opera Perì physeos di Parmenide è scritta in versi). Senofane era un poeta, il quale però, invece di cantare le gesta degli eroi, cantava la natura e, soprattutto, criticava il politeismo antropomorfico. Sosteneva che gli uomini si creano gli dei, diciamo così, a propria immagine e somiglianza.

In un frammento attribuito a lui si legge:

«…i Traci che hanno i capelli chiari si immaginano gli dei che abbiano i capelli chiari, gli Etiopi che hanno i capelli scuri si immaginano gli dei con i capelli scuri, se i cavalli e i cani potessero immaginare e disegnare i loro dei li dipingerebbero, li raffigurebbero, come cavalli o come cani».

Critica gli dei in forma umana, l’antroporfismo della religione olimpica e critica soprattutto il politeismo, e sostiene che c’è un solo Dio.

Parmenide traspone questa intuizione sul terreno filosofico: non ci sono molteplici entità, corpuscoli, punti-numeri come dice Pitagora, ma c’è una sola realtà, c’è soltanto l’Essere.

L’UNITÀ DI PENSIERO ED ESSERE

La decisiva affermazione parmenidea è appunto che

la realtà è una, è tutta compatta, non è inframmezzata di non-essere: l’essere è e il non-essere non è

Questa affermazione ha una potenza logica notevole in quanto non si può non convenire con l’affermazione che “l’essere è e il non-essere non è”, affermazione che è il cardine di tutta la filosofia parmenidea.

Infatti, se non vogliamo accettare questa concordanza tra pensiero e essere, dobbiamo arrivare all’assurdo, come Parmenide stesso sostiene. Per quale motivo? Perché qualunque cosa pensiamo “è” in quanto nostro pensato: se pensiamo il non-essere lo facciamo “essere”, lo facciamo essere appunto il nostro pensiero del non-essere; se pensiamo il vuoto, la morte, il nulla, tutto quello che si può concepire di negativo, questo finisce con l’esistere in quanto nostro pensiero. Ecco perchè Parmenide afferma che pensiero e essere sono una sola cosa; nel momento in cui penso il non-essere, il non-essere lo sto facendo esistere, sia pure nella forma limitata di pensiero, ma il non-essere a quel punto è, quindi il pensiero non può essere scisso dall’essere.

Pensare il non-essere vuol dire far essere il non-essere, di conseguenza la via che afferma l’esistenza del non-essere risulta infondata: bisogna partire dalla semplice costatazione che l’essere è e il non-essere non è.

Ora, se l’essere è, ne deriva una serie di conseguenze:

Ci troviamo di fronte a un ragionamento rigorosamente deduttivo: siamo partiti dall’affermazione che l’essere è, e da questo abbiamo dedotta tutta una serie di caratteri dell’essere. Parmenide anche in questo si dimostra fedele seguace di Pitagora. In che senso? Applica il metodo deduttivo proprio della matematica e della geometria: parte da un’affermazione di carattere generale e da questa deduce affermazioni di carattere più specifico, più particolare: le caratteristiche dell’essere sono tratte dall’affermazione iniziale che l’essere è e il non-essere non è.

Abbiamo dunque una serie di caratteristiche dell’essere che sono appunto l’unità, l’immobilità, l’eternità, il non essere generato; insomma abbiamo un arricchimento rispetto alla prima affermazione, ma è l’affermazione stessa della coincidenza di pensiero ed essere e dell’esistenza dell’essere che racchiude tutta la grandezza di Parmenide, in quanto testimonia della strettissima saldatura tra il pensiero dell’uomo e la realtà.

La necessità della realtà

Dire che pensiero ed essere sono una sola cosa significa affermare nella maniera più forte l’intuizione greca del lògos: il pensiero umano è assolutamente adeguato alla realtà, c’è una perfetta corrispondenza tra la realtà e il pensiero, e ciò implica la potenza del pensiero, e insieme una accentuazione della necessità. Einstein amava dire che Dio non gioca a dadi con l’universo, cioè che le leggi dell’universo sono necessarie e non sono soggette ad arbitrio o a cambiamento e riconosceva che il primo che ha espresso questa intuizione con forza è Parmenide: l’essere non potrebbe non essere; è, ed è quello che è necessariamente, è quello che deve essere; l’esistenza dell’essere è un punto di partenza assoluto.

Il mondo è sempre stato, ma se il mondo c’è sempre stato non c’è un momento precedente al mondo, ne viene fuori un’altra conseguenza molto importante: se il mondo c’è sempre stato è sempre stato quello che doveva essere. La realtà, nella sua interezza è, è e non può non essere, si trova a essere quello che è inevitabilmente, è tutta legata, dice Parmenide, dalla necessità: non potrebbe essere diversamente perché non è nata da un atto di arbitrio, dalla volontà di un Dio. È quello che è. Non si può fare altro che partire dall’esistenza del mondo, ma l’esistenza del mondo implica che il mondo è quello che è e certamente non è diverso da quello che è; non essendo diverso da quello che è, è animato da un’intima necessità, e se è animato dalla necessità nel suo essere, se il mondo è e non può essere altro che quello che è, evidentemente anche nei momenti precedenti e nei momenti successivi non può essere altro da quello che è; dato il mondo com’è configurato oggi, verrà necessariamente un certo determinato mondo di domani, in quanto altrimenti avrebbe dovuto essere diverso anche quello di oggi. Parmenide è il grande sostenitore della necessità della realtà, del determinismo.

Il poema di Parmenide

Del Perì physeos di Parmenide abbiamo pochi frammenti. È certo che si divideva in due parti, una dedicata alla verità e una dedicata all’opinione. La parte dedicata all’opinione non ci è pervenuta e qui si apre un problema che discuteremo tra breve: se Parmenide vedeva l’opinione semplicemente come qualche cosa di sbagliato, da respingere assolutamente, oppure no.

C’è uno schema classico di interpretazione che è quello di Platone e anche di Hegel: Parmenide è il filosofo dell’essere, Eraclito è il filosofo del divenire, Parmenide è il filosofo dell’unità e dell’immobilità, Eraclito è il filosofo della pluralità e del movimento: sono due posizioni importanti, ma unilaterali.

A noi non è pervenuta la parte del poema sulle opinioni, ma alcuni interpreti sostengono che Parmenide in questa parte recuperava una validità sia pure parziale dell’opinione, che dev’essere integrata nella verità, e non respingeva completamente il mondo del divenire e dell’opinione come farà invece il suo discepolo Zenone.

Il poema presenta un andamento in esametri che sono propri del poema epico e una serie di figure religiose che fanno pensare alla Teogonia di Esiodo. Probabilmente - come ha sostenuto Werner Jaeger - il poema di Parmenide è un poema religioso-filosofico: non dobbiamo dimenticare che Parmenide, pur essendo il grande filosofo dell’essere, è anche un appartenente alla religione misterica degli orfico-pitagorici.

«Le cavalle che mi portano, conformemente all’impulso della mia mente, anche ora mi guidarono, poiché m’avevano spinto su quella famosa via della dea che porta l’uomo che sa per ogni dove».

Il filosofo, colui che usa la ragione, viene trainato da cavalle; l’immagine dei cavalli che fanno da traino alla ragione è presente anche in Platone, che nel mito dell’iperuranio vede l’anima come una biga alata trascinata da cavalli. E possibile che Platone abbia tratto ispirazione di qui, dal carro di Parmenide che procede verso la conoscenza. Nel primo verso si trova: epithymos, una sorta di passione intellettuale: thumos è un termine da cui viene “entusiasmo”. All’origine della conoscenza c’è per Parmenide qualche cosa di non pienamente razionale: un elemento di carattere entusiastico, passionale; ci vuole uno slancio per partire sulla via del conoscere, e questo slancio non è qualche cosa di pienamente razionale, ci vuole un entusiasmo per la conoscenza.

Un altro termine su cui è importante soffermarsi è via. La via è il percorso iniziatico, è la via iniziatica: chi entrava nei misteri pitagorici doveva percorrere una strada verso il sapere e la virtù. C’è il tema della strada, del cammino faticoso che l’uomo deve compiere per arrivare alla conoscenza. E come se Parmenide, sulla scorta di Pitagora, volesse dire: l’uomo arriva alla pienezza di sé, all’uso della ragione, attraverso un percorso faticoso. Ma Parmenide trasforma questa strada, che era la strada religiosa, misterica, iniziatica, nella strada della conoscenza. Strada in greco si dice odos (al secondo rigo del poema in greco si legge odori): la parola italiana che ne proviene è “metodo”: “metà-odon”, il metodo è la strada per arrivare alla conoscenza.

Parmenide, come Pitagora, ha compiuto un passo dalla religione alla filosofia: ha trasformato la via iniziatica di stampo religioso nel metodo scientifico, nel metodo deduttivo per giungere alla verità.

Rileggiamo dalla traduzione di Giovanni Casertano:

«Le cavalle che mi portano conformemente all’impulso della mia mente, anche ora mi guidarono, poiché m’avevano spinto su quella famosa via della dea che porta l’uomo che sa per ogni dove. Su quella via fui condotto; su quella via infatti mi portavano le cavalle esperte che tiravano il carro, e fanciulle indicarono il cammino. L’asse ruotando nel mozzo mandava un acuto stridore, sprizzando faville (poiché era mosso dalle due ruote che vorticosamente si muovevano da una parte e dall’altra), quando si affrettarono, le fanciulle figlie del sole, liberato il capo dai veli, a spingermi verso la luce, abbandonando la regione della Notte».

Il testo dei primi versi in greco presenta una cadenza stridente e ritmata, il che è stato interpretato nel senso che la conoscenza si mette in moto con un’intuizione improvvisa, con un moto di entusiasmo e di intuizione improvviso, che segna una rottura con lo stato precedente di ignoranza. Poi ci sono le fanciulle figlie del sole. Non è un caso che sono figlie del sole: si profila la metafora della ragione, metafora che è arrivata fino aH’Illuminismo: la ragione dell’uomo equivale al sole che illumina le cose, sono le figlie del sole che guidano il viandante perché sta percorrendo il cammino della ragione, sta arrivando a far sbocciare in sé la razionalità, la via maestra della conoscenza.

Quindi lo guidano le figlie del sole, e appunto lo portano alla luce: abbandona le tenebre dell’ignoranza: «là c’è la porta che divide il cammino della Notte e del Giorno». Sottolineerei la parola “divide”: c’è il senso che l’errore e la verità hanno una linea separatoria ben precisa, come la notte e il giorno, bisogna seguire quella buona, la via della verità e abbandonare quella cattiva, la via delle opinioni.

La porta si apre grazie alla benevolenza di Dike, la dea della giustizia. Per i Greci il mondo è dominato da una legge di giustizia, di armonia, di proporzioni, di equilibrio. Dike è una suprema divinità, è la giustizia che dischiude le vie della conoscenza, in quanto la conoscenza ha a che fare con il senso delle cose, con le proporzioni delle cose, conoscere significa capire quale ruolo deve avere ogni cosa, e quindi il conoscere ha a che fare con la giustizia e con la dimensione morale dell’uomo: alle leggi della natura corrispondono le leggi della morale. Abbiamo viso in Pitagora che il sapere e la virtù non sono separati: essere sapienti, essere giusti, essere virtuosi è tutt’uno per l’uomo greco.

«E allora le fanciulle, esortandolo con gentili parole, la persuasero accortamente a togliere per loro velocemente la sbarra dalla porta: e la porta si aprì rivelando un ampio passaggio e facendo girare nei cardini, da una parte e dall’altra, i suoi assi di bronzo fissati con cinghie e con chiodi. Per di là attraverso la porta le fanciulle guidarono immediatamente sulla strada il carro e le cavalle. E la dea mi accolse benevolmente, mi prese la mano destra con la sua mano e così, con queste parole, mi parlò».

Si profila un problema: Parmenide ha parlato di Dike, ora parla di una dea che non viene nominata ed è stata oggetto di varie interpretazioni. Hans-Georg Gadamer sostiene che questa dea è Mnemosyne, la dea della memoria. Ancora una volta viene ribadita l’origine orfico-pitagorica di Parmenide: Mnemosyne era divinità particolarmente venerata dagli orfici. Parmenide vedrebbe la dea che gli deve svelare la verità come la dea della memoria, in coerenza con un legame orfico-pitagorico e con tutta la sua filosofia: la memoria garantisce l’unità della conoscenza in quanto permette di saldare la conoscenza precedente con quella successiva, di dare unità, organicità, coerenza, continuità alla conoscenza, quindi di farla diventare una: senza la memoria, le conoscenze sono frammentarie, invece per Parmenide la realtà è fortemente compatta, è una.

La dea gli parlò con queste parole:

«O giovane, che insieme a immortali guidatrici vieni alla mia casa portato dalle cavalle, salve! Giacché non una cattiva sorte ti ha condotto per questa via (che infatti è lontana della via battuta dagli uomini), ma una legge sacra e giusta».

Qui si riscontra un’analogia con Eraclito. Si è sostenuto che il Perì physeos è uno scritto contro Eraclito, il che appare riduttivo. Parmenide ad Eraclito sono vicini, sono entrambi in forte polemica contro la maggioranza degli uomini che vivono senza seguire la strada della luce, come si esprime Parmenide, oppure del lògos come dice Eraclito: entrambi sono per la conoscenza razionale e contro la via dell’opinione, che è quella seguita da chi si affida solo ai sensi, cioè dalla maggioranza dei mortali. E’ una via, quella di Parmenide, lontana dalla via battuta dagli uomini comuni.

«E’ necessario che tu apprenda ogni cosa, sia il fondo immutabile della verità senza contraddizioni, sia le esperienze degli uomini nelle quali non è vera certezza».

Parmenide, come colui che viene iniziato, a cui viene fatta raggiungere la verità, deve conoscere “il fondo immutabile della verità senza contraddizioni”. “Senza contraddizioni” vuol dire che una cosa è quello che è non può essere altra da quello che è - l’essere è e il non-essere non è - ma bisogna conoscere anche “le esperienze degli uomini nelle quali non è vera certezza”: ed è su questa frase che si appunta l’attenzione di chi sostiene che la seconda parte del Perì physeos non implica una negazione totale delle opinioni, ma che lì Parmenide potrebbe aver elaborato una dottrina delle opinioni, per cui queste non devono essere semplicemente respinte, ma assorbite nel quadro della verità, cioè discusse criticamente, inquadrate, unificate e riassorbite nella verità.

«Ma ad ogni costo anche questo apprenderai, dal momento che le esperienze debbono avere un loro valore per colui che indaga tutto in tutti i sensi»

Per colui che indaga, per il filosofo, è importante che la verità venga vista come qualche cosa che ha le radici nell’errore, nella verità parziale: la verità non è isolata in se stessa, ma è in legame con la non verità, e quindi si dovranno conoscere anche le opinioni e le esperienze degli uomini.

Il secondo frammento inizia con le parole della dea:

«Ebbene io ti esporrò - e tu fai tesoro del discorso che odi - quali siano le sole vie di ricerca pensabili. L’una che esiste e non può non esistere - è il cammino della Persuasione (infatti segue la Verità); l’altra che non esiste ed è necessario logicamente che non esista, e questa io ti dico che è una strada del tutto impercorribile».

Nel testo greco a questo punto manca il soggetto; “l’una che esiste e non può non esistere”, non dice: “l’essere esiste”. Qualche studioso ha detto che il soggetto è la verità, qualcun altro ha sostenuto che il soggetto è l’essere, qualcuno dice che il soggetto della frase è la via, ma il soggetto manca e viene detto semplicemente che “esiste e non può non esistere”, il soggetto non è l’essere: viene espresso semplicemente che c’è, c’è la realtà, c’è la realtà nella sua totalità, questa è probabilmente la interpretazione più autentica.

Parmenide dice che c’è e basta, non dice che l’essere è, la totalità della realtà è, si può dire semplicemente “è”, si può parlare soltanto di quello che è, non ci si può porre il problema di perché la realtà c’è e di che cosa c’era prima che la realtà ci fosse e ancor meno ci si può porre il problema che la realtà potrebbe essere diversa da quella che è: è e basta.

«Perché ciò che non è non puoi né conoscerlo - infatti questa conoscenza è irrealizzabile - né esprimerlo»

La conoscenza del non essere è impossibile, il pensiero funziona come il mitico re Mida che trasformava in oro tutto quello che toccava: esso tocca le cose e le trasforma in essere, le fa diventare essere.

Segue una frase decisiva: «infatti è la stessa cosa pensare ed essere», è la stessa cosa perché si può pensare solo l’essere.

«Bisogna dire e pensare che ciò che è esiste: infatti è possibile che solo esso esiste mentre il nulla non esiste: su questo ti invito a riflettere. Infatti da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma anche da quella per la quale uomini che nulla sanno vanno errando, uomini con due teste».

Si presenta qui un altro problema interpretativo. A questo punto le vie sembrerebbero tre: c’è la via della verità, cioè la via dell’essere, poi c’è la via del non-essere di cui dice “ma ti tengo lontano anche da quella” quindi sembrerebbe una terza via. C’è la via buona che è quella della verità, c’è la via del non-essere da cui lo tiene lontano, però poi dice: «…ma anche ti tengo lontano anche da quella per la quale gli uomini che nulla sanno vanno errando, uomini con due teste».

Gli interpreti hanno sostenuto che qui Parmenide polemizza con Eraclito, il quale penserebbe che c’è l’essere, ma anche il non-essere, in quanto il divenire è l’unione di tutte e due le cose; ci sarebbe una terza via che è la via di Eraclito; altri interpreti invece sostengono semplicemente che è la comune umanità a ragionare con due teste: gli uomini nei momenti di lucidità si rendono conto che la ragione è lo strumento principale di conoscenza, poi lo dimenticano (ricorre l’importanza di Mnemosyne) di avere la ragione e usano un’altra testa che li porta fuori dal retto cammino cioè sulla via dell’opinione. La maggior parte dell’umanità cade nell’incoerenza in quanto usa a volte una testa e a volte un’altra. Infatti così continua dicendo:

«Poiché l’incertezza che hanno nel petto guida la loro mente indecisa; ed essi si lasciano trascinare, sordi e insieme ciechi, storditi, gente che non sa giudicare, per la quale la stessa cosa, e poi non lo è più, il considerare l’esistere e il non esistere, e [per la quale] in ogni caso c’è sempre un cammino in senso inverso».

La ragione insegna a discriminare, cioè a giudicare, vale a dire a capire la collocazione delle singole cose. Chi usa la ragione è capace di mettere in ordine la molteplicità e di vedere le differenze tra le cose: le successioni, le gerarchie, l’ordine che c’è nelle cose. Chi usa la ragione è capace di liberarsi dal caos apparente delle sensazioni, delle opinioni, dei fatti, degli eventi che sono molto disparati, diversificati tra di loro, sembrano ognuno a sé stante. Chi usa la ragione sa che la realtà è una, riesce a scorgere le connessioni tra le cose, riesce a giudicare le cose, a metterle ognuna nella sua collocazione. Il mondo del molteplice non va semplicemente rifiutato, esso va respinto in quanto mondo del molteplice, mentre deve essere ricondotto a unità.

Parmenide è il filosofo dell’unità e dell’essere, ma sostiene che il non-essere, il divenire, il molteplice non sono da escludere, bensì da unificare, da sussumere, da organizzare sotto il pensiero, sotto l’essere. La molteplicità dei fenomeni e degli eventi che apparentemente sono caotici vanno riorganizzati dal pensiero e ricondotti a unità. «Per me è lo stesso da quale punto cominciare: lì infatti tornerò».

«Guarda come anche le cose lontane per mezzo della mente divengano sicuramente vicine, infatti non scinderai ciò che è dalla sua connessione con ciò che è, né separandolo completamente dalla sua connessione sistematica con tutti gli altri enti, né costituendolo in se stesso».

Le cose non possono essere viste come costituenti in sé stesse unità autonome. Questo è l’errore che porta alla lotta, alla strada sbagliata, alla via delle opinioni, che è il contrario della via della verità. Quando una cosa viene vista come un frammento a sé stante si è persa la possibilità di comprendere, quindi non bisogna mai spezzare la connessione di ciò che è con ciò che è, le cose vanno viste sempre nel loro scambio, nella continuità, nel loro completarsi con le altre cose.

In quel “non scinderai” viene visto un elemento di critica a Pitagora. Pitagora ha scisso le cose in quanto ha detto che erano separate dal vuoto, dal non essere. La dea gli dice di non fare lo stesso errore di Pitagora, che consiste nella discontinuità della realtà.

«Poiché giammai si potrà imporre con la forza questo, che esistano le cose che non esistono. Ma tu allontana i tuoi pensieri da questa via di ricerca; né l’atteggiamento dispersivo degli uomini ti costringa lungo quest’altra via, facendo uso di occhi che non vedono e di orecchie rimbombanti, usando parole vuote, ma giudica con la ragione le prove piene di argomentazioni polemiche da me addotte».

Rimane ora solo da parlare della via che esiste: ciò che è è ingenerato e indistruttibile perché non può trapassare nel non-essere, non può nascere dal non-essere; è infatti compatto nelle sue parti, è immutabile. La realtà non ha un fine, la realtà è un valore per il fatto che c’è, il che significa che la realtà è già un bene per quello che è, si tratta di saper individuare il bene.

Vuol dire che se la realtà è come è c’è una ragione per cui è tale, vuol dire che gli eventi si sono accumulati in modo tale per cui la realtà è quella che è. La realtà non ha un fine da realizzare, è buona per come è, in quanto è espressione di razionalità, di lògos.

«E infatti compatto nelle sue parti e immutabile e senza un fine a cui tendere: non era né sarà, poiché è ora un tutto omogeneo, uno, continuo. E infatti quali origine gli cerchereste? Come e da dove potrebbe essere accresciuto? Da ciò che non è non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo: poiché esso non è né esprimibile né pensabile dal momento che non esiste».

Quindi da che cosa la realtà potrebbe essere accresciuta? Da quello che non è certamente no, perché appunto non è, quindi è quello che è e va bene come è; ha una intrinseca necessità.

«E quale necessità l’avrebbe spinto a nascere prima o dopo se comincia dal nulla? Pertanto è necessario che esista in assoluto o non esista affatto. Né mai la forza della certezza concederà che da ciò che non è nasca qualcosa accanto a ciò che è».
«Perciò né nascere né perire gli ha permesso Dike allentando i suoi vincoli, ma lo tiene saldamente. Su queste vie dunque la decisione consiste in questo: esiste o non esiste. Si è deciso dunque, com’era necessario, di lasciare una delle vie come impensabile e inesprimibile (non è la vera via infatti) mentre l’altra esiste ed è autentica. Come potrebbe, ciò che è, esistere nel futuro? Come potrebbe nascere? Se infatti era, non è; così pure, se ancora deve essere, non è».

Così si eliminano i concetti di nascita e di morte, incomprensibili se riferiti all’essere, ma ammissibili se si riferiscono all’essere come somma degli esistenti: un uomo può nascere e morire, Parmenide non vuol dire che l’uomo non nasce e non muore, non aumenta e non diminuisce, ma è la realtà nella sua totalità che non nasce e non muore, non aumenta e non diminuisce, è sempre la stessa, assume nuove configurazioni, è sempre stata e sempre sarà.

«Così si eliminano i concetti incomprensibili di nascita e morte. Neppure è divisibile giacché è tutto uguale: né vi è in qualche parte un di più che gli impedisca di essere continuo, né di un di meno, ma è tutto pieno di essere. Perciò è tutto continuo: poiché, ciò che è, è tutt’uno con ciò che è. Inoltre è immobile nei limiti di potenti legami senza principio né fine poiché nascita e morte sono state respinte lontano ad opera della vera certezza. E rimanendo sempre se stesso nella propria identità, riposa in se stesso e così rimane saldo nel suo luogo; infatti la possente Necessità lo tiene nei legami del limite che d’ogni parte lo avvolge, poiché ciò che è non può essere incompiuto».

Ciò che è ha una necessità, deve essere ciò che è, non è incompiuto, è quello che la realtà può esprimere sulla base dei vincoli della necessità; l’alternativa è di pensare che la realtà può cambiare a piacimento, per miracolo, per velleità, invece la realtà è quella che è per un vincolo di necessità che ravvolge in ogni momento, la stringe da tutte le parti; non ci sono zone della realtà affidate all’arbitrio, al caso.

«Infatti non manca di nulla: ciò che non è invece manca di tutto. Ed è la stessa cosa il pensare e ciò che è pensato».

Al di là delle interpretazioni molteplici, sicuramente rimane un messaggio forte di Parmenide: la coincidenza di pensiero e essere, e la necessità che avvolge l’essere.

CREDITI

Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.