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PITAGORA

Pitagorismo e orfismo

Pitagora è il primo dei pensatori della Magna Grecia: è nato a Samo, ma ha svolto il suo insegnamento a Crotone, che oggi purtroppo non reca tracce dello splendore di colonia greca che aveva nel 530 a. C., quando vi morì Pitagora. Pitagora proveniva da Samo, ma quasi certamente aveva avuto una lunga iniziazione nei templi egiziani e si era recato poi a Babilonia. Secondo la Vita di Pitagora di Giamblico, Pitagora è stato iniziato alla religione misterica egiziana nel tempio di Menfi, dove sarebbe rimasto per ben ventidue anni, sarebbe poi stato per dodici anni a Babilonia, infine sarebbe approdato nella Magna Grecia.

Si tratta di un personaggio enigmatico, che ha travasato esperienze orientali in un grande esperimento politico della Magna Grecia. Ha avuto l’intuizione geniale di trasferire e di trasporre in questa terra quanto aveva appreso nei riti iniziatici egiziani e babilonesi, ma di questo parleremo nella seconda metà della nostra trattazione, perché siamo costretti, per dare ordine all’esposizione, a dividere quello che invece è unito. Pitagora è il filosofo del numero, quindi di qualche cosa di oggettivo, di universale, di calcolabile, è, in questo senso, un filosofo precursore della scienza. Tutto è radicato nel numero. Nello stesso tempo, però, Pitagora è un personaggio misterioso: ha fondato una scuola sul modello dell’iniziazione dei templi egiziani, in cui alle conoscenze supreme arrivavano soltanto pochi adepti di grande fiducia, che avessero dato prova di possedere grandi capacità di autocontrollo e di dirittura morale.

Di Pitagora non esiste neppure un rigo scritto, in quanto pare che non abbia scritto nulla. E difficile quindi identificarne bene la figura. Sembra che abbia svolto un insegnamento diviso nettamente in due parti: una essoterica, rivolta agli ascoltatori e ai giovani che dall’esterno affluivano alla sua scuola di Crotone, e una esoterica, interna, rivolta ai discepoli più fidati, che erano tenuti a mantenere il segreto su queste dottrine. Il pensiero di Pitagora è quindi di difficile ricostruzione.

Inoltre c’è il fatto che egli non ha solo fondato una scuola filosofica, ma ha dato vita a un cenobio (dal greco κοινός «comune» e βίος «vita»), ha precorso in qualche modo i monasteri medioevali in una chiave filosofica: ha creato una comunità che viveva secondo regole mentali, regole logiche, ma anche regole morali, addirittura igieniche, riguardanti la dieta. La sua non era soltanto una scuola di filosofia, ma era una scuola di vita, e presentava un aspetto di carattere religioso.

La religione che sembra sia stata il risvolto della medaglia del pitagorismo è l’orfismo. La religione orfica, secondo le tendenze interpretative che si sono sempre più affermate negli ultimi decenni anche sulla base di scoperte archeologiche, sarebbe stata la religione di cui erano seguaci i pitagorici, non sarebbe un fenomeno indipendente dalla filosofia pitagorica.

In Pitagora abbiamo dunque un insegnamento essoterico, rivolto all’esterno e uno esoterico, rivolto all’interno, segreto: c’è un aspetto filosofico, la teoria dei numeri, e un aspetto religioso, la religione orfica; in lui troviamo la complessità di una figura che crea una scuola filosofica, ma anche una scuola di vita. Siamo di fronte a un personaggio che sembra diviso a metà tra un aspetto pubblico e un aspetto occulto, un atteggiamento razionale e un atteggiamento religioso.

A tutto questo si aggiunge un altro problema: le sue dottrine sono ricavate da frammenti dei pitagorici successivi, pertanto è difficile poter capire quanto risale a Pitagora, al maestro, e quanto invece è stato divulgato in seguito da Filolao e dagli altri pitagorici. Su questo persistono dispute tra gli studiosi, ma per semplicità, e perché comunque il fondatore della scuola è lui, parleremo sempre di Pitagora anche se più esattamente si dovrebbe parlare di pitagorismo. Tra l’altro, vedremo che la scuola pitagorica si spacca per una contraddizione interna: evidentemente quanto ci è rimasto dei pitagorici risale a varie epoche, in cui si sono verificati cambiamenti nella dottrina. Tenendo presenti questi complessi problemi di interpretazione, cerchiamo di affrontare la dottrina attribuibile direttamente o indirettamente a lui.

Il numero come arché

Pitagora fa parte dei filosofi “Greci d’Italia” come li denomina Hegel, il quale sostiene che i filosofi greci d’Italia propendono per l’astrazione, mentre quelli della Ionia, i “Greci d’Oriente”, sono più concreti: gli Ionici assumono un elemento sensibile come principio, come arché: l’acqua, l’aria, il fuoco; Pitagora invece, pur ponendosi lo stesso problema del fondamento ultimo della realtà, lo trova in qualche cosa di astratto, di non materiale.

Il ragionamento che Pitagora ha probabilmente seguito è semplice e insieme molto solido: l’arché, per essere fondamento di tutto, deve essere presente dappertutto. Che cos’è sicuramente presente dappertutto? Se chiedo a un qualunque interlocutore di descrivere un oggetto, questa descrizione potrà avvenire in termini variamente soggettivi. Consideriamo un banale esempio: una cattedra, un tavolo. Notiamo che il tavolo può essere descritto nel senso di essere una superficie liscia, di essere una superficie fredda, di essere di colore rossastro, etc. Tutte le caratterizzazioni che si possono dare del tavolo sono di tipo soggettivo: il colore rossastro può apparire, se non c’è luce, grigiastro, oppure a un daltonico può apparire di un’altra tonalità che non è più sul rosso, ma sul verde; se ho una temperatura corporea alta perché ho la febbre lo sentirò più freddo; il mio tatto mi dice che è liscio, ma al tatto di qualcun altro potrebbe sembrare ruvido, e così via.

Il ragionamento che fa Pitagora è questo: nei corpi non ci sono oggettivamente caratteristiche come il colore, la ruvidezza, oppure la temperatura; sicuramente invece nei corpi sono presenti le dimensioni geometriche, traducibili in termini numerici. Del tavolo, come di qualunque altro oggetto, potrò dare tante descrizioni, tutte quante soggettive, che non coincidono con quelle di un’altra persona perché sono formulate in base ai sensi, alla vista, al tatto, all’olfatto, variabili da individuo a individuo, ma se invece descrivo un qualunque oggetto in base alle dimensioni geometriche, e dico: «Si tratta di un corpo lungo due metri e mezzo, largo un metro, alto un metro e dieci centimetri dal suolo, etc.», tutti questi dati potranno essere riscontrabili da chiunque, a prescindere dall’essere daltonico, miope, sano o malato, che sia adulto o che sia giovane. Se calcolo il volume di questo ambiente, per esempio, esso sarà riscontrabile negli stessi termini da chiunque altro si metta a fare le stesse misurazioni: tutti gli elementi, tutte le caratteristiche presenti nel mondo, negli oggetti, sono opinabili, variano da individuo a individuo, tranne quelle legate alle dimensioni, alla misura, ai numeri.

Sicuramente i fattori numerici, i fattori di carattere geometrico degli oggetti, di un qualunque oggetto, sono qualcosa di riscontrabile da tutti allo stesso modo; allora, mentre il colore, il sapore, etc. possono essere soggettivi, cioè dipendono da me soggetto, e non dall’oggetto stesso, se è vero come è vero che la lunghezza, la superficie, il volume li riscontrano tutti come identici, ciò vuol dire che questi dati appartengono all’oggetto stesso, sono propri della realtà. I numeri non vengono dalla mia mente o dai miei sensi o dal mio apporto soggettivo individuale, i numeri sono nelle cose stesse.

Ogni realtà è descrivibile in termini di lunghezza, di superficie, di volume, di peso, cioè in termini numerici riscontrabili da tutti. I numeri sono presenti nelle cose, in tutte le cose, perché tutte le cose, vicinissime o lontanissime, sono tutte quante misurabili, si possono descrivere numericamente. Se i numeri sono nelle cose, in tutte le cose: l’elemento che è presente dappertutto è l’arché, quindi il numero è l’arché.

Più precisamente l’arché è il numero uno: ci sono numeri dappertutto, ma tutti i numeri sono riconducibili al numero uno in quanto tutti i numeri nascono dal numero uno sommato a se stesso tante volte fino a quando non si raggiunge quel determinato numero. Per Pitagora l’arché è il numero uno anche per un altro motivo importante: ogni numero è uno con se stesso. Se considero un qualsiasi numero, per esempio 317, riscontro che esso non è confondibile né con 318, né con 316, ha una sua collocazione irripetibile nella successione dei numeri, non è confondibile né con quello che segue, né con quello che precede. Ogni numero è uno con sé stesso, quindi ogni numero contiene l’unità; per esempio 317 contiene trecentodiciasette volte l’unità, ma contiene l’unità anche nel senso che è uno, cioè è identico con se stesso, ha una sua identità unica, inconfondibile con l’identità di tutti gli altri numeri.

Con questo ragionamento molto rigoroso, Pitagora fa implicitamente affermazioni importanti: la via di conoscenza fondata sui sensi ci porta fuori strada, è pericolosa, in quanto porta al soggettivismo, invece con la ragione si identifica il fatto che in ogni cosa sono presenti i numeri, i quali sono qualche cosa di oggettivo; la ragione mi fa vedere l’essenza, e questa essenza, cioè il numero, è oggettiva e universale.

Pitagora quindi separa la sensibilità come facoltà che porta alla soggettività, all’errore, e la ragione come facoltà che porta invece alla vera natura delle cose, all’essenza delle cose, a una visione universale. In questo modo Pitagora coglie una capacità decisiva dell’uomo: i numeri sono presenti nelle cose, sono presenti però anche nell’intelletto. Egli afferma la forte simmetria, l’omogeneità tra la mente dell’uomo e il mondo: il mondo è fatto di numeri e l’intelletto dell’uomo può operare con i numeri. L’uomo conosce perfettamente il mondo in quanto la natura del mondo è numerica, e il nostro intelletto è capace di misurare e di ragionare sulle misure e di sviluppare conoscenze numeriche.

Questa intuizione è molto importante perché con la vista si può arrivare fino ad una certa distanza, ma con l’intelletto si può arrivare dovunque, si possono acquisire conoscenze che sono certissime, anche se non possono essere verificate empiricamente. Si può calcolare l’altezza della grande piramide, come sembra che abbia fatto Pitagora, senza doversi arrampicare sulla piramide, senza neppure doverla vedere o toccare, ma semplicemente con la potenza dell’intelletto. La capacità di conoscenza umana si spalanca di fronte a orizzonti immensi.

Questo è un aspetto molto rigoroso della filosofia di Pitagora, filosofia che si discosta da quello che è il nostro modo di pensare quando Pitagora rileva che i numeri non sono solo qualche cosa di quantitativo, ma hanno anche una sorta di caratteristica qualitativa. L’affermazione si basa sullo stretto parallelismo tra aritmetica e geometria, concetto che va fortemente messo al centro dell’attenzione, altrimenti non si coglie il nucleo del pensiero pitagorico e la sua stessa crisi.

La qualità dei numeri

Per Pitagora ai numeri corrispondono i punti. La cosa è intuitiva: se posso calcolare la superficie di questo tavolo evidentemente un dato di carattere geometrico si traduce in un dato di carattere aritmetico, quindi c’è una stretta parentela tra geometria e aritmetica. Questa parentela però i pitagorici la esasperavano, sostenendo che i numeri si possono rappresentare come punti. Dalla rappresentazione della successione dei numeri sotto forma di punti vengono fuori conseguenze che permettono di scorgere una connotazione qualitativa e non solo quantitativa dei numeri. La cosa sembra complicata, ma in effetti non lo è se si fa riferimento a quella sorta di triangolo che è la tetractis, cioè l’immagine sacra, il simbolo sacro dei pitagorici. Come è nato? Per loro il numero uno corrisponde ad un sassolino, ad un puntino, poi disponevano la successione numerica come si comincia a fare in questa piramide: il numero due sono due puntini affiancati, il numero tre, tre puntini, e così via.

Da questa traduzione dei numeri in termini figurativi i pitagorici ricavavano le qualità dei numeri. Essi facevano un ragionamento che può risultare curioso: se traccio una linea retta partendo dal vertice del triangolo, come se ne tracciassi una bisettrice, quando mi trovo a passare attraverso i numeri pari non trovo alcun limite, cioè se inizio a tracciare una bisettrice, arrivato dove sono i due puntini che segnano in numero due ci passo in mezzo, quando invece arrivo al numero tre mi trovo il terreno sbarrato: il numero tre, rappresentato da tre sassolini, impedisce il cammino della linea di questo percorso che parte dall’uno. La cosa è semplificata in maniera più evidente nella seguente illustrazione: nei numeri pari, la linea che parte non trova ostacoli, mentre nei numeri dispari, fanno trovare un ostacolo a chi parte dall’uno.

Questo fatto per Pitagora aveva un enorme significato: i numeri pari sono illimitati, perché non pongono ostacolo alla linea che parte dall’uno, la linea che parte dall’uno invece è ostacolata, è limitata dai numeri dispari. Il ragionamento era questo: il numero due equivale all’illimitato, il numero tre equivale al limitato, i numeri pari sono l’illimitato, i numeri dispari sono il limitato. Che cosa ne deduceva Pitagora? Per i Greci, ciò che non ha limite è negativo, in quanto per l’uomo greco quello che conta è la forma finita, è la proporzione, per i Greci l’eccesso, quello che è di troppo, sovradimensionato, illimitato, è qualche cosa di negativo. Di questo passo i pitagorici procedono a una serie di associazioni: i numeri pari corrispondono alla notte, i numeri dispari corrispondono al giorno, e così via. Da Pitagora è nata l’idea che i numeri si possono accoppiare a significati, hanno una qualità positiva o negativa; alcuni numeri portano fortuna, altri portano sfortuna: questo odierno oggetto di superstizione è forse una degenerazione della intuizione pitagorica, per cui i numeri hanno in sé stessi un significato qualitativo, ora più positivo ora più negativo. Per venire a qualche esempio: il numero uno rappresenta l’identità, ed è considerato un numero speciale, non è né pari né dispari, Pitagora lo chiama “parimpari”, perché aggiunto ai numeri pari, li fa diventare dispari, mentre aggiunto ai dispari li fa diventare pari; il due implica che l’unità è rotta nella pluralità, quindi il numero due è il simbolo della pluralità; il numero tre è il numero perfetto (come si crede anche nella mentalità popolare), in quanto rappresenta la totalità, in quanto esprime l’unità più la pluralità. Riepilogando: il numero uno è l’identità, il numero due è la pluralità, il numero tre simboleggia la totalità, è il numero perfetto.

L’armonia del cosmo

E’ importante per la teoria pitagorica la considerazione che la realtà è fatta di pari e dispari; dappertutto c’è una mescolanza di numeri pari e di numeri dispari, un’unione tra pari e dispari, cioè tra il limitato e l’illimitato, in tutte le cose c’è un contrasto di numeri.

Pitagora è anche l’iniziatore delle teorie musicali, il primo che intuisce che le note musicali, i toni, i ritmi della musica si traducono in termini matematici. Sostiene che il mondo è vario, le cose sono frutto di uno scontro di numeri, ma i numeri possono sempre essere messi in rapporto tra di loro, in quanto, presi due numeri qualsiasi, posso sempre avere il rapporto tra il primo e il secondo. La realtà quindi implica una grandissima varietà, ma una varietà che si armonizza, perché anche i numeri più diversi messi assieme danno sempre luogo a un rapporto che implica un’armonia tra di loro: la realtà è un’armonia di contrari, è una sorta di sinfonia che nasce proprio perché ci sono cose diverse.

La realtà è plurale, è fatta di tante cose apparentemente discordanti, è figlia di Pólemos come dice Eraclito, ma la guerra tra le cose dà luogo in fin dei conti a un’armonia. La realtà è un ‘cosmo’ è ordinata, bella: la totalità della realtà è una grande sinfonia, è un tutto ordinato di cose diverse tra loro, complementari le une alle altre, che si armonizzano tra di loro. In conseguenza di questo, la musica è la principale disciplina da insegnare ai giovani: la musica, abituando all’armonia, al ritmo, alla misura, abitua all’armonia, al ritmo, alla misura della realtà.

La discontinuità della realtà

Dal parallelismo tra aritmetica e geometria viene fuori però un’altra conseguenza di grandissima importanza per lo sviluppo successivo della filosofia: se ai numeri corrispondono i punti, la realtà è discontinua. Pitagora è un filosofo della discontinuità della realtà: se la realtà viene concepita come tanti puntini (perché ai puntini corrispondono i numeri e viceversa), ogni oggetto sarà fatto di tanti puntini, che i pitagorici chiamano “punti-numeri” (in seguito Leucippo e Democrito li chiameranno “atomi” e di fatto riprenderanno la stessa teoria con un altro linguaggio).

La realtà per Pitagora è fatta di tanti punti-numeri ravvicinati tra di loro, ma che non si toccano, che hanno ognuno la propria identità, sono inconfondibili gli uni con gli altri, anche se abbiamo l’impressione della continuità. Anche in questo Pitagora è grande: alla vista, al tatto, abbiamo l’impressione della solidità delle cose, i sensi ci dicono che le cose sono continue e sono solide, Pitagora intuisce, duemilacinquecento anni prima delle teorie atomiche della fisica e della chimica moderne, che invece la realtà non è continua. Qual è la conseguenza di questa visione del mondo? I punti sono vicinissimi, ci sembrano uniti, ma in realtà c’è più vuoto che pieno. In termini filosofici, il vuoto è il non-essere: la realtà è fatta di essere e non-essere.

La realtà è quindi fatta di punti e di vuoto, di essere e di non-essere, ma questa visione della discontinuità viene messa in crisi dall’applicazione del teorema di Pitagora alla diagonale di un quadrato di lato unitario. Vediamo che cosa succede se si applica il suo teorema alla diagonale del quadrato di lato unitario: se vogliamo calcolare la misura della diagonale di un quadrato di lato uguale ad 1, vediamo che tale diagonale, che è ipotenusa di un triangolo rettangolo con i due cateti uguali a 1 (un centimetro, un metro, etc.), è uguale alla radice quadrata di 2.

Iniziando a calcolare questa radice quadrata, i pitagorici si accorsero che non arrivavano mai all’ultimo decimale: in altri termini, la radice quadrata di due, che esprime la diagonale del quadrato di lato unitario, è un numero irrazionale, cioè un numero decimale infinito, quindi un numero con infiniti decimali. I pitagorici scoprono un numero infinito, ma questo comporta che tra il numero uno e il numero due non c’è un salto, un vuoto, bensì una serie infinita di tanti altri numeri.

Per il parallelismo tra aritmetica e geometria, se trasponiamo questo discorso sul piano geometrico dovremo dire che tra un punto e l’altro punto non c’è il vuoto, bensì una continuità infinita. Pertanto la teoria della discontinuità di Pitagora è sbagliata, perché proprio l’applicazione del teorema di Pitagora ci mostra che esistono collegamenti infiniti tra il numero uno e il numero due, quindi fra tutti i numeri. Allora la realtà non sarà discontinua, fatta di punti-numeri e di vuoto, ma sarà costituita solo di pieno. La realtà non consta di essere e di non-essere, la realtà è solo essere, e quindi la scuola pitagorica cade in contraddizione con se stessa. Sembra che su questo punto la scuola sia entrata in crisi.

Una scuola iniziatica

Abbiamo accennato fin qui soltanto a un aspetto di questo personaggio enigmatico, la cui scuola ha avuto anche, come si è detto, un risvolto iniziatico-religioso. Ripeto che anche ritrovamenti archeologici recenti nell’Italia meridionale sembrano ormai confermare che la religione misterica dell’orfismo era l’altra faccia della medaglia del pitagorismo. Pitagora aveva forse tratto l’idea di un percorso iniziatico per la sua scuola dall’esperienza fatta nei templi egiziani. Le dottrine iniziatiche implicano prove da superare per poter arrivare a un modello superiore di conoscenza, e questo livello superiore non può essere divulgato all’esterno.

Pitagora, ha forse “laicizzato” le iniziazioni egiziane: ha fondato a Crotone una scuola in cui c’era un’iniziazione, ma laica, non di una casta sacerdotale, ma di una casta politica. Probabilmente ha concepito un grande progetto politico. Su che cosa si può fondare la comunità? Soltanto su ciò che viene colto da chi adopera la ragione. Cioè quanto la ragione individua come elementi numerici, di proporzione, di armonia nella realtà; la gente, distratta da tante mire effimere, avida di ricchezza, avida di potere, in quanto adopera in prevalenza altre facoltà piuttosto che la ragione, non coglie l’armonia, la composizione delle cose, la loro misura, il loro ritmo, che significano, nel mondo umano, giustizia, equità, proporzione.

Bisogna dunque formare gruppi compatti di persone in grado di usare la ragione, non soltanto per dimostrare teoremi di geometria, ma per calare la geometria nel mondo umano, cioè per creare una società più giusta, una società in cui viga una proporzione tra individuo e individuo, grazie a un’armonia introdotta nei rapporti umani attraverso le leggi. Pitagora trasforma probabilmente l’iniziazione religiosa egiziana nella iniziazione di una scuola di dirigenti politici; essi sono tali non in quanto avidi di potere, ma in quanto posseggono la scienza dei numeri.

Questa scuola, che nasce sulle sponde del Mediterraneo, in piena solarità, comprende una divisione tra gli acusmatici (dal greco acuo, che significa ascoltare), cioè giovani che cominciano ad accorrere attratti dalla personalità equilibrata, molto piacevole, di Pitagora, e sono semplici uditori, matematici, e infine fisici, a conoscenza delle dottrine più segrete.

Pitagora cercava di individuare i giovani più promettenti per guidarli alle conoscenze matematiche, e via via alle conoscenze di carattere più segreto. Questo portò una ripercussione fatale per la scuola pitagorica, in quanto si diffuse la voce che Pitagora stesse creando una setta segreta, una setta aristocratica, il che ebbe conseguenze drammatiche di cui diremo tra poco.

La coincidenza di virtù e sapere

E’ importante prima sottolineare un aspetto molto originale e interessante della impostazione di Pitagora. Egli manifesta questa idea precisa: la scienza può essere anche pericolosa. Le conoscenze possono dare potere: più so, meglio posso dominare la realtà e quindi ho più forza. Le conoscenze superiori devono pertanto essere comunicate soltanto a chi è veramente degno di averle: il sapere e la morale devono essere strettamente congiunti.

E’ un intuizione che offre grandi spunti di riflessione oggi, in una situazione in cui il sapere e la morale sono spesso separati l’uno dall’altra. Per Pitagora questa scissione non deve avvenire: il sapere e la morale sono strettamente intrecciati. Pitagora è quindi un capostipite dell’intellettualismo etico greco: la virtù e il sapere, il bene e il vero non sono separati, come pensiamo noi; il bene, la virtù da una parte, la verità, la conoscenza dell’altra sono strettamente unite, sono anzi la stessa cosa; l’intellettualismo etico implica la coincidenza di virtù e sapere.

Pitagora insegna che il bene è collegato all’intelligenza, alla comprensione della realtà, al capire dove sta il bene e dove sta il male; se si agisce per emotività, può anche darsi che si agisca bene, ma sarà stato per caso e altrettanto casualmente si potrà sbagliare: “Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”.

La Vita di Pitagora di Porfirio

Abbiamo detto l’essenziale circa le dottrine di Pitagora, ma consideriamo ora la Vita di Pitagora scritta da Porfirio, un grande neopitagorico; egli riferisce, sulla base di quanto raccontato da Dicearco, che:

«Appena Pitagora giunse in Italia e si stabilì a Crotone, i crotoniati furono talmente affascinati da lui, specialmente dopo che ebbe ottenuto le simpatie del senato con molti bei discorsi, che i magistrati lo incaricarono di educare i giovani mediante discorsi adatti alla loro età: egli era infatti un uomo di grande valore, aveva molto viaggiato e soprattutto era stato eccezionalmente dotato dalla natura, tanto che il suo aspetto era nobile e grande, e pieno di grazia e di decoro il suo modo di parlare, di agire e di fare qualsiasi cosa. Parlò, dunque, ai fanciulli, che gli si radunavano attorno appena usciti da scuola, e più tardi anche alle donne. Anzi istituì un’assemblea di donne. In tal modo la sua fama crebbe sempre di più e molti gli divennero compagni: in città non furono solo uomini, ma anche donne, come Teano, che divenne famosa; ma lo seguirono anche re e signori delle regioni circostanti che erano abitate da barbari. Quello che diceva ai suoi compagni nessuno può dirlo con certezza, perché lo custodivano in gran segreto. Ma le sue opinioni più note sono queste: diceva che l’anima è immortale e che può trapassare anche in esseri viventi di altra specie, che quello che è stato si ripete ad intervalli regolari, cosicché non c’è mai nulla di veramente nuovo, che, infine, dobbiamo considerare come appartenenti alla stessa specie tutti gli esseri viventi».

Si tramanda che Pitagora sostenesse la trasmigrazione delle anime, cioè la metempsicosi, il fatto che un’anima dopo la morte trapassa in un altro corpo, un corpo più vile, più bruto, addirittura di animali se la vita è stata indegna, in un corpo invece più elevato, più nobile se la vita è stata degna, fino a che, alla fine della serie di reincarnazioni, ci si libera dal corpo, che viene visto come una specie di carcere per l’anima, come una zavorra.

Può sembrare una teoria fantasiosa, ma in effetti essa nasconde una visione morale molto elevata: chi durante l’esistenza è stato legato alla materialità, tendenzialmente rimarrà prigioniero della materia, non potrà emanciparsi, il suo spirito non si potrà liberare; se si è condotta una vita distante dalla materia, in cui la corporeità è stata tenuta sotto controllo, allora la fine della vita sarà una liberazione, sarà un alleggerimento dalla zavorra della materia. E’ una suggestiva dottrina sull’anima, ma in effetti è anche una dottrina morale, che vuole insegnare a combattere il materialismo, inteso come zavorra dello spirito.

Forse proprio in base alla teoria della metempsicosi, Pitagora imponeva ai suoi seguaci una dieta vegetariana e i suoi nemici ironizzavano su questo; un episodio riportato dalle testimonianze, chiaramente inteso a screditare Pitagora, narra come egli abbia rimproverato una persona che stava picchiando un cane, in quanto gli era parso di cogliere nell’abbaiare del cane la voce di un amico defunto. Si tratta di un episodio riferito da Diogene Laerzio che lascia intendere che i pitagorici erano oggetto di scherno e di diffidenza.

Le testimonianze di Gellio e di Giamblico

Come si evince da una testimonianza riportata da Aulo Gellio, gli ammessi al noviziato «dapprima si chiamavano, nel periodo in cui dovevano tacere ed ascoltare, “acustici”». Pare che questo periodo durasse ben cinque anni: per cinque anni, i giovani che erano ammessi nella scuola di Pitagora potevano solo ascoltare, non potevano parlare, dovevano recepire le dottrine e meditarle, ma non potevano esprimere loro opinioni. Per Pitagora, la formazione della personalità implicava un periodo di recezione e di raccoglimento.

Secondo lui la maturità non consiste nella velleità di essere diversi, di dire cose diverse: prima di avere qualcosa di originale ma serio da dire bisogna imparare l’oggettività, quindi tacere per assorbire il mondo, stare in ascolto della voce della realtà, solo dopo si può avere una propria posizione sul mondo. Quindi per cinque anni i discenti dovevano tacere, ma,

«quando avevano appreso le cose più difficili fra tutte, cioè tacere ed ascoltare, e già avevano cominciato ad acquistare erudizione nel silenzio, che veniva detto echemuthia, allora acquistavano la facoltà di parlare e di far domande e di scrivere quel che avevano sentito e di esprimere quel che pensavano. In tal periodo essi si chiamavano matematici, da quelle arti, cioè, che avevano cominciato ad apprendere e meditare: perché gli antichi Greci chiamavano mathemata* [scienze], la geometria, la gnomonica [l’arte di ricavare l’orario dalle proiezioni delle ombre sulla meridina], la musica e le altre discipline più alte. Quindi, adorni di tali studi di scienza, passavano a considerare l’opera del mondo e i principi della natura, e allora infine venivano chiamati fisici%%%%». </box> Da questo testo di Gellio si capisce bene come nella scuola pitagorica fossero presenti vari livelli, i discepoli prima ascoltavano, poi potevano parlare, venivano a conoscere le matematiche astratte, infine apprendevano la fisica, cioè l’applicazione della matematica agli oggetti materiali. Leggiamo infine una testimonianza di Giamblico, che descrive la fine drammatica della scuola: <box 95% round green> «Tutti sono d’accordo nel riferire che il complotto fu fatto mentre Pitagora era assente, ma non tutti concordano nel dire dove si trovasse in quel momento, perché secondo alcuni era andato da Ferecide di Siro, secondo altri soggiornava a Metaponto. E sono anche diverse le ragioni che vengono addotte per spiegare il complotto. Tra le altre, sembra più plausibile quella che lo attribuisce al gruppo di Cilone. Cilone di Crotone era per nascita, per fama e per ricchezza uno dei primi cittadini, ma era anche aspro, violento, sedizioso e di carattere tirannico; infatti, si era messo in testa di entrare a far parte del sodalizio pitagorico e ne aveva parlato allo stesso Pitagora, ma ne era stato respinto per le ragioni già dette». </box> Pitagora accoglieva solo i giovani da cui aveva l’impressione che potessero sviluppare l’intelligenza. Questo personaggio, che si era avvicinato alla scuola evidentemente per un equivoco, perché credeva che questa costituisse un nuovo gruppo di potere, venne respinto da Pitagora, che si creò così un nemico mortale: <box 95% round green> «Per questo, con i suoi amici, aveva intrapreso una guerra spietata contro Pitagora e i suoi amici: e tanto violenta fu la guerra di Cilone e dei suoi compagni, che durò finché ci furono pitagorici. Pitagora dovette emigrare a Metaponto, dove secondo una tradizione morì. Intanto i cosiddetti cilonei continuarono a lottare con ogni mezzo contro i pitagorici: e tuttavia per qualche tempo la nobiltà d’animo dei pitagorici e la volontà popolare ebbero la meglio, tanto che le città vollero ancora essere governate da essi. Ma alla fine i cilonei, che non avevano mai cessato un momento di intrigare contro i pitagorici, dettero fuoco alla casa di Milone, dove quelli si erano radunati per prendere decisioni politiche, e li bruciarono tutti tranne due, Archippo e Liside: questi, più giovani e forti degli altri, riuscirono ad aprirsi una strada e a mettersi in salvo. Il delitto rimase impunito e i pitagorici smisero di occuparsi degli affari pubblici». </box> L’episodio resta avvolto dal mistero. Evidentemente, i pitagorici subiscono un attacco feroce, poi sembra che scompaiano, ma si può pensare che, abituati a strutture iniziatiche, segrete, schiacciati a Crotone, rifiorirono in altre città della Magna Grecia sotto forma di sodalizi segreti. Nell’Italia meridionale c’è stata una tradizione pitagorica che è riemersa in epoche successive. La scuola fu dispersa, ma essa rinacque sotto forme segrete altrove: <box 95% round green> «il delitto rimase impunito e i pitagorici smisero di occuparsi degli affari pubblici. Due furono le ragioni che li indussero a questa decisione, l’inerzia delle popolazioni che non punirono gli autori di tale delitto e la morte degli uomini più adatti al comando. I due che si salvarono erano entrambi tarantini: Archippo se ne tornò a Taranto, e Liside, che non voleva finire oscuramente la sua vita, passò in Grecia». </box> A Taranto si recò poi Platone per attingere alle dottrine pitagoriche, che influenzarono la parte più matura del suo pensiero. ======Crediti====== Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.