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GIORDANO BRUNO (1548-1600)

rITRATTO

Ritratto di Giordano Bruno, pubblicato la prima volta nel 1824, basato su un presunto ritratto a incisione, anonimo, del 1715, secondo alcuni riproduzione, a sua volta, di un ritratto realizzato durante la sua vita (ca. 1578), oggi andato perduto

La vita

L’opera di Giordano Bruno (1548-1600) si colloca nell’ambito dell’umanesimo e del naturalismo rinascimentali. L’umanesimo implica lo sforzo di oggettivazione dell’uomo e del suo passato nella prospettiva di acquistare un’identità rispetto all’alterità del passato. Il naturalismo comporta l’oggettivazione della natura, così che l’uomo, l’uomo nuovo del Rinascimento, possa acquisire il senso della propria identità rispetto all’alterità della natura. Il naturalismo si presenta come risvolto della medaglia dell’umanesimo.

Tutto questo è evidente in Giordano Bruno. Giordano Bruno è stato visto da Eugenio Garin, il più grande storico italiano della filosofia nel Novecento, come un genio sincretistico, che ha messo insieme, ha sintetizzato, varie tradizioni, ma soprattutto quanto gli è pervenuto dall’umanesimo. Giordano Bruno chiude il cerchio della cultura neoplatonica: raccoglie Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e l’umanesimo nella sua interezza.

Giordano Bruno è nato, probabilmente, nel 1548 a Nola, vicino a Napoli. In una sua deposizione al tribunale dell’inquisizione di Venezia, delinea la sua autobiografia in risposta ai giudici: «Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodici miglia, nato ed allevato in quella città, e la professione mia è stata ed è di littere e d’ogni scienzia».

Nato nel 1548, si trova ad essere al centro dello sviluppo della Controriforma e della presenza spagnola in Italia. Vive quando i prescritti del Concilio di Trento diventano operativi e nel periodo successivo alla pace di Cateau Cambrésis del 1559. che segna l’inizio della dominazione spagnola in Italia. Sono due coordinate decisive per l’esistenza di questo filosofo così vigoroso e così irrequieto. L’identificazione esatta del suo pensiero non è facile, proprio perché condensa in sé molte dottrine, che elabora, le fa proprie, le amplia e le supera continuamente.

Entrato nell’ordine domenicano a Napoli, pare a 14-15 anni, inizia a leggere di tutto, si impadronisce di tutte le tradizioni filosofiche ortodosse ed eterodosse, per cui, già da giovanissimo, cade sotto l’occhio vigile dei suoi superiori. Nella stessa deposizione veneziana che abbiamo citato dice:

«[…] perché a Napoli ero stato processato due volte: prima per aver dato via certe figure ed immagine de Santi e retenuto un Crucifisso solo, essendo per questo imputato di sprezzar le immagini de Santi; ed anco per aver detto a un novizio che leggeva la Istoria delle sette allegrezze in versi, che cosa volesse far de quel libro, che lo gettasse via, e leggesse più presto qualche altro libro, come è la Vita de santi Padri».

Di fronte agli inquisitori di Venezia, Bruno sa che è inutile nascondere il proprio passato, ma la sua posizione viene presentata in termini molto cauti; non ha disprezzato la religione, non ha rinnegato il Cristianesimo, ha voluto solo respingerne l’aspetto superstizioso, quello che ha poi criticato ne Lo spaccio de la bestia trionfante. Per tutta la durata del processo a Venezia continuerà a sostenere di essere un buon credente.

Viene trasferito dal tribunale di Venezia a quello di Roma e, fino all’ultimo, mantiene una cauta linea di difesa, ma quando il Cardinale Bellarmino estrapola dalle sue opere otto tesi, abiurando alle quali dovrebbe rinnegare tutto il suo pensiero, Giordano Bruno diventa intransigente, accetta il rogo, ascolta la sentenza di morte in ginocchio, poi si alza e dice:

«Avete più paura voi, nel pronunciare questa sentenza, che io nell’ascoltarla».

Ma fino all’ultimo momento, fino al dicembre del 1599 (è andato sul rogo il 17 febbraio del 1600), cerca di evitare di essere identificato con un irrisore della religione: il suo pensiero è molto complesso e sfumato e si presenta ancora oggi aperto alle interpretazioni.

Giovane irrequieto, rifiuta le immagini dei santi, comincia ad essere perseguitato. Di fronte a minacce un po’ più gravi del Tribunale romano, nel 1576 si reca a Novi, in Liguria, e poi approda a Ginevra. Ginevra era la città di Calvino, era la città in cui questo cofondatore del protestantesimo aveva creato la Chiesa presbiteriana, basata sul controllo della comunità da parte dei più anziani. Nella città di Calvino spera di trovare più libertà rispetto all’Italia cattolica della Controriforma. Ma Bruno accusa la morale calvinista di essere una morale parassitaria, in quanto Calvino accentua molto la salvezza per fede rispetto alla salvezza per opere. Questo aspetto, che sembrerebbe progressivo, di rottura, della morale calvinista contro la morale cattolica, che era degenerata nella pratica delle indulgenze, viene invece attaccato da Bruno come componente di una morale parassitaria, che rifiuta l’attività salvifica, mentre - come vedremo - per Bruno l’uomo è tutto attività. Bruno accusa il calvinismo di essere una religione che invita al parassitismo. Il Concistoro, cioè la Chiesa democratica calvinista, si comporta proprio come la Chiesa episcopale, autoritaria, cattolica romana: lo caccia via dalla comunità ecclesiale di Ginevra.

Bruno prende allora la strada della Francia. Passa prima per Tolosa, poi approda a Parigi. E’ un lungo calvario, ma un calvario anche disseminato di gloria. A Ginevra il Concistoro lo espelle perché Bruno osa discutere da pari a pari con i teologi calvinisti pur essendo giovanissimo; a Parigi, avendo pubblicato il De umbris idearum, la sua prima grande opera, di carattere neoplatonico, entra nelle grazie di Enrico III, viene ricevuto a corte, viene ammesso a disputare alla Sorbona, e incorre nelle ire degli aristotelici dell’Università della Sorbona, che si vedono derubati dei loro discepoli, affascinati da questo personaggio schietto e sempre polemico.

Bruno rimane a Parigi tra il 1581 e il 1583 poi, proprio al seguito dell’ambasciatore francese (in quanto almeno a corte rimaneva molto stimato), va a Londra. Qui entra in dialogo con la regina Elisabetta, circondata di uomini colti; conosce sir Philip Sidney; viene ammesso a tenere lezione a Oxford, dove entra in conflitto con i filosofi e i teologi del luogo; nei fecondissimi anni londinesi pubblica i sei dialoghi in lingua italiana che sono le sue opere maggiori.

Secondo Eugenio Garin, Bruno ha voluto tenere un doppio registro: da una parte si è visto come un Mercurio, come un iniziatore di un epoca nuova: l’umanità è in una fase di decadenza, ma ci possono essere segni di ripresa perché c’è un fermento di idee e lui pensa di essere uno dei portatori di idee nuove, come Copernico. Quindi Bruno pensa di dover rivolgersi a un duplice pubblico: scrive i dialoghi in italiano, molto vivaci, rivolti ai lettori colti, opere essoteriche, se vogliamo usare il linguaggio classico della filosofia greca, scrive invece in latino le opere esoteriche, le opere di carattere più tecnico, rivolte ai cultori della filosofia. I dialoghi italiani sono stati scritti e pubblicati a Londra tra il 1583 e il 1585.

Ma anche a Oxford Bruno entra in conflitto con i dotti locali, deve rientrare nel continente. Percorre un’altra strada. Si reca a Praga e poi - per ricordare solo le tappe principali - a Wittenberg. Nel 1588 approda nella città di Lutero: a Wittenberg Lutero ha affisso nel 1517 le famose novantacinque tesi sulla salvezza per fede, dando inizio al protestantesimo. Qui Bruno, in un primo momento, esalta Lutero come l’Ercole tedesco; s’ingrazia la Chiesa evangelica luterana, però poi inizia a criticare il luteranesimo, e, per farla breve, deve andare via anche da Wittenberg. Approda a Francoforte, dove pubblica opere in latino che vengono considerate di carattere atomistico ed epicureo: De Minimo, De Monade, De immenso et innumerabilibus.

Le tre fasi del pensiero di Bruno

Siamo nel 1591, arriviamo alle soglie della conclusione della prodigiosa produttività di Giordano Bruno. Gli studiosi individuano tre fasi nella produzione filosofica di Bruno.

Una prima fase di carattere neoplatonico, Le ombre delle idee, è un titolo significativo: le cose sono copie delle idee, c’è un’ispirazione platonica e neoplatonica. Quindi il De umbris idearum, la fase parigina, sarebbe una prosecuzione del platonismo e del neoplatonismo.

Poi c’è la fase londinese dei sei grandi dialoghi italiani, che viene vista all’insegna di Copernico, la fase della fondazione della filosofia più propria di Giordano Bruno, la tendenziale affermazione del panteismo.

A Francoforte, la fase conclusiva, che si lega all’atomismo antico e all’epicureismo, quindi a una forma di materialismo estremo.

Riepilogando: a Parigi neoplatonismo, a Londra copernicanesimo rinnovato, a Francoforte atomismo.

Nel 1591, Bruno a Francoforte scrive i dialoghi latini, e riceve da un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, il quale ha saputo che Bruno è esperto di mnemotecnica, l’invito a recarsi a Venezia. Bruno era dotato di una memoria prodigiosa per natura, ma aveva anche sviluppato tecniche della memoria sulla scorta di Raimondo Lullo (1234-1315).

Queste tecniche sono legate alla prima fase del suo pensiero, quella neoplatonica. Il neoplatonismo si fonda sull’idea che tutto è Uno e dall’Uno emanano tutte le cose, quindi, essendo tutti gli esseri individuali, tutte le entità particolari manifestazioni dell’Uno, tutto è riconducibile all’unità; ci sono rapporti fra tutte le cose. Se ci sono rapporti stretti tra tutte le cose, in quanto tutte le cose si riconducono all’Uno, la mente può rintracciare i percorsi di quest’unità. Dal momento che il mondo è uno, le cose sono apparentemente separate e diverse, ma hanno una profonda unità, hanno ritmi che le legano insieme strettamente: se si è capaci di cogliere questi ritmi, questi percorsi, si può conseguire una formidabile memoria, in quanto si possono mettere in collegamento cose distanti nello spazio e nel tempo in rami diversi dello scibile. Bruno elabora una tecnica per collegare conoscenze riguardanti i vari campi della natura, i vari eventi storici. Aveva fama di possedere una grandissima memoria e di essere capace di trasmettere questa memoria.

Ma alla fase neoplatonica va legata anche un’altra disciplina più inquietante: la magia. Se tutte le cose sono partecipi dell’Uno, sono manifestazione di qualcosa di unitario, esse si possono trasformare le une nelle altre. Nelle opere di Giordano Bruno dal punto di vista letterario dominano le metamorfosi, le capacità di trasformazioni, quella che, con termine incisivo, chiama “vicissitudini”. Il mondo è fatto di una materia eterna, che subisce continue trasformazioni, assume continuamente nuove forme che rampollano al suo interno, dando luogo a sempre nuove manifestazioni.

Bruno incautamente accetta l’invito di Giovanni Mocenigo e si reca a Venezia, che era al tempo una Repubblica dotata di forte orgoglio per la sua autonomia. Giordano Bruno è convinto che la Repubblica mantenga una forte autonomia rispetto alla Chiesa.

Secondo Garin, Bruno va a Venezia anche per un altro motivo: era esperto di matematica e sperava di ottenere la cattedra di matematica a Padova. Invece incappa nei rigori dell’Inquisizione e nell’anno 1592 questa cattedra viene data a Galileo Galilei. Giovanni Mocenigo, che era un personaggio grossolano, deluso dal fatto di non acquisire rapidamente una memoria prodigiosa, probabilmente deluso dal fatto che sperava di imparare formulette di magia, chiede bruscamente a Bruno di darsi da fare a insegnargli queste cose. Bruno replica di voler tornare a Francoforte, ma, mentre sta preparando i bagagli, Mocenigo fa chiudere la porta della sua stanza a chiave. Il giorno dopo Bruno viene portato all’Inquisizione di Venezia, accusato da parte di Mocenigo di essere un bestemmiatore, un dispregiatore della religione, di aver avuto comportamenti dissoluti in casa sua.

A Venezia Bruno mantiene una linea molto prudente, sostiene di essere filosofo e di “investigare con la demostratione”, di dimostrare le cose, di usare la ragione, mentre la fede è un’altra faccenda. Si fonda in sostanza sul principio della doppia verità: ammette cautamente di aver potuto fare affermazioni sulla base della ragione in contrasto con la Chiesa, ma di essere pronto ad accettare le Scritture, e l’altra verità, cioè quella della fede. Tutta la sua dottrina è scritta e egli stesso la riassume ai giudici.

«Ed in questi libri particolarmente si può veder l’intenzion mia e quel che ho tenuto [quello che ho sostenuto]_ ; la qual in somma è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà e potenzia che, possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri infiniti, producesse un mondo finito_».

L’infinità del mondo

Bruno dice in sostanza: la mia dottrina fondamentale è l’infinità del mondo. Questa può sembrare oggi un’ovvietà, ma dobbiamo tener presente che allora dominava l’immagine aristotelico-tolemaica del cosmo, di un mondo chiuso in sfere cristalline con al centro la Terra, un mondo assolutamente finito. Bruno afferma con nettezza che il mondo invece è infinito, in quanto Dio è infinito e sarebbe limitativo che un Dio infinito desse luogo a un mondo finito.

Nelle sue opere argomenta in questo modo: il finito può essere pure molto grande, ma rispetto all’infinito è comunque qualche cosa di piccolo, è un’inezia, si può dire che qualunque cosa, anche enorme, di fronte all’infinito è un niente. Allora Dio si sarebbe autocontraddetto nel creare un niente; la creazione di un mondo finito sarebbe stata pari alla creazione di un granello di polvere, di niente. Non può essere che Dio, che ha una potenza infinita, abbia creato un mondo limitato. Dio ha creato un mondo infinito. Ma il fatto che il mondo sia infinito non comporta che non ci sia un Dio infinito che lo ha generato.

Bruno, con argomentazioni filosofiche forti, cerca di distinguere l’infinità del mondo dall’infinità di Dio, ma da questa prospettiva è facile arrivare al panteismo, cioè alla coincidenza di Dio col mondo: se Dio è infinito e il mondo anche è infinito, Dio e il mondo vengono a coincidere, perché due cose finite sono distinte e separate, sono diverse le une dalle altre, ma l’infinito, se occupa tutto lo spazio possibile, se non ha niente fuori di sé per definizione, non può che coincidere con un “altro” infinito. L’infinito può essere uno solo. E allora se Dio è l’infinito e il mondo è l’infinito, Dio e il mondo coincidono. Con l’affermazione che un Dio infinito ha generato un mondo infinito s’è aperta la strada per dire che Dio e mondo sono coincidenti, si è aperta la strada per il panteismo.

Un’altra argomentazione curiosa di Giordano Bruno, che egli probabilmente riprende dal pitagorico Archita di Taranto, è questa: se il mondo fosse finito, immaginando un uomo che arriva al limite di questo mondo, se mette la mano dall’altra parte, dove sta mettendo questa mano? La mano non esiste più? Oppure, quell’altra cosa che sta oltre questo fine che cos’è? E niente? Ma il niente non può essere. Quindi, con varie argomentazioni, sostiene l’infinità del mondo. Questa è la sua dottrina originale.

Continua la deposizione col dire:

«Sì che io ho dichiarato infiniti mondi particulari simili a questo della Terra; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile alla quale è la Luna, altri pianeti ed altre stelle, le qual sono infinite; e che tutti questi corpi sono mondi e senza numero, li quali costituiscono poi la università infinita in uno spazio infinito, e questo se chiama universo infinito; nel quale sono mondi innumerabili».

Bruno fa un’affermazione che lo proietta nelle esperienze dell’umanità del terzo millennio: se l’universo è infinito ci sono anche infiniti mondi, se ci sono infiniti mondi ci sono infinite Terre, se ci sono infinite Terre ci sono infinite specie animate e intelligenti. Da Telesio riprende l’ilozoismo dei presocratici: tutto è vivente, tutto è animato, l’universo è infinito, ci sono infiniti mondi, questi infiniti mondi possono essere un po’ migliori, un po’ peggiori della Terra, ma saranno simili alla Terra e saranno mondi abitati e, dal momento che la vita sulla Terra è una vita intelligente, ci sarà vita intelligente anche su questi altri mondi.

«Di sorte che è doppia sorte de infinitudine de grandezza dell’universo e de moltitudine de mondi, onde indirettamente s’intende essere repugnata la verità secondo la fede. Di più, in questo universo metto una providenza universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l’una nel modo con cui presente è l’anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l’altra nel modo ineffabile col quale Iddio per essenza, presenzia e potenzia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile».

Una scintilla di divinità è presente dappertutto, ma, nello stesso tempo, Dio è presente anche in se stesso, in un’altra sfera concentrata, non dispiegata. C’è una concentrazione di Dio in sé e una sua esplicazione nel mondo: un modo diverso per dire: c’è una trascendenza e un’immanenza di Dio. Dio sta fuori dal mondo e insieme sta nel mondo. Di qui prendono le mosse quell’ambiguità, quell’oscillazione, quel pensare tumultuoso che lo portano a debordare dall’ortodossia, e all’accusa di panteismo. Ma nel panteismo cerca di non scivolare mai completamente.

Ne sono esempio le argomentazioni del De la causa, principio et uno, in cui Bruno sostiene che Dio è contemporaneamente principio e causa.

Mens insita omnibus

Qual è la caratteristica del principio? Il principio è l’inizio, è un moto originario, è il motore di qualche cosa, è presente in quello che ha principiato. Nei principi del diritto sono presenti elementi fondamentali del diritto. Adduce l’esempio della linea: nella linea è presente il suo principio che è il punto. Il principio è qualche cosa che genera un “che”, ma è anche in questo “che”: il punto genera la linea, ma il punto è anche presente nella linea. Dio è principio del mondo, ma è anche presente in tutte le cose, tutte le cose sono divine, Dio è immanente.

Mens super omnia

Però Dio, oltre ad essere principio e quindi immanente, è anche causa. La causa è, invece, qualcosa che è sempre esterno rispetto all’effetto: il rapporto di causa-effetto è un rapporto di esteriorità. Dio, oltre ad essere principio è anche causa, oltre ad essere immanente è anche trascendente. L’esempio della linea implica questo: il punto, come principio, sta nella linea, ma la penna che lo ha tracciato e che è la causa materiale della linea, non sta nella linea stessa. La causa, la penna, è esterna; il punto, il principio, è interno. Dio è insieme principio e causa; quindi Dio è insieme immanente e trascendente rispetto al mondo.

«Ponendo poi il mondo causato e produtto, intendeva che secondo tutto l’essere è dependente dalla prima causa; di sorte che non aborriva dal nome della creazione, la quale intendo che anche Aristotele abbia espressa, dicendo Dio essere, dal quale il mondo e tutta la natura depende; sì che, secondo l’esplicazione de S. Tomaso, o sia eterno o sia in tempo secondo tutto lo essere suo, è dependente dalla prima causa e niente è in esso independentemente».

Questa è la linea che Bruno sostiene a Venezia. La Repubblica di Venezia, nel 1593, per un atto di debolezza, lo cede all’Inquisizione romana; Bruno dal 1593 al dicembre del 1599 continua a sostenere che le sue affermazioni sono compatibili con la dottrina ufficiale della Chiesa. Poi, quando gli chiedono di rinnegare le otto affermazioni individuate dal Cardinale Bellarmino, che in effetti comportano l’abiura di tutto quello che ha scritto, si rifiuta ostinatamente, fino a che viene portato, il 17 febbraio 1600, sul rogo in Campo dei Fiori addirittura con il mordacchio, cioè con una sorta di museruola, per impedire che durante il tragitto dicesse qualcosa di sconveniente. Diventa il martire del pensiero moderno.

L’uomo, la mente, le mani

Bruno perviene a una visione di Dio trascendente e immanente, principio e causa, che è una visone molto moderna; rotta la limitatezza del mondo, Dio e il mondo sono la vita-materia infinita, che genera continuamente da sé nuove forme, per cui ne viene fuori un dinamismo continuo della vita, una continua trasformazione della vita, le continue vicissitudini della realtà, che comportano, dal punto di vista morale, l’attivismo.

Bruno è sprezzante contro l’asinità: gli asini sono coloro che stanno a sentire, che obbediscono, che sono soggetti all’autorità, che, quindi, sono passivi. Contro la “santa asinità”, contro la remissione, la superstizione, l’ignoranza, la passività, Bruno è per la morale dell’attività. Sostiene che l’uomo è caratterizzato insieme dall’intelletto e dalle mani, anzi, secondo lui, senza l’uso delle mani l’uomo non sarebbe neppure intelligente. È molto suggestivo quello che sostiene: è la stessa struttura corporea che genera un certo tipo di atteggiamento verso il mondo e quindi anche l’intelligenza.

I moderni studi dell’antopologia, della biologia evolutiva e delle neuroscienze hanno confermato ad esempio la relazione tra il pollice opponibile e l’intelligenza umana. Il pollice opponibile, che consente movimenti complessi della mano, è considerato una caratteristica cruciale per lo sviluppo della nostra specie, poiché ha influenzato non solo la capacità manuale ma anche il cervello e il pensiero astratto.

Contro la dottrina aristotelica di forma e materia come distinte e separate, Bruno sostiene che la forma è connaturata alla materia. Per lui esiste solo la materia animata; in questo senso continua il naturalismo di Telesio. La materia animata, la corporeità, prende diverse forme; e tra queste anche forme impregnate d’intelligenza. L’uomo è intelligente perché ha un corpo fatto in un certo modo e perché ha le mani. Se non avesse il corpo strutturato come è strutturato, se non fosse fatto di quella materia che ha preso spontaneamente, per “vicissitudini”, per metamorfosi, quella forma, non sarebbe quello che è.

Non ci sono potenza e atto che si devono - secondo la visione aristotelica - incontrare, non c’è alcuna forma che si deve stampigliare nella materia; la materia nelle sue trasformazioni, nelle sue metamorfosi, ha preso la forma del corpo umano. La forma del corpo umano favorisce l’intelligenza, anche perché c’è la mano che dà potere all’uomo. Mette in rapporto la mano con la possibilità di Adamo di cogliere il frutto dell’albero del Bene e del Male, cioè dell’albero della conoscenza: è una bella immagine per dire che la mano è connessa con l’intelligenza.

Ne scaturisce una morale dell’attività dell’uomo. Il lavoro è una fonte di emancipazione, permette di trasformare le cose; l’uomo, con la sua fatica, riesce a essere padrone del mondo. Bruno esalta la capacità trasformativa dell’uomo, l’attività, contro “l’asinità”, contro lo stare a sentire, contro la passività dell’ossequio alle tradizioni.

L’universo è uno e infinito, è materia tutta animata, tutta divina, protesa a trasformarsi continuamente, che culmina nell’uomo, un grande trasformatore; questo nocciolo della sua filosofia prende l’avvio da Copernico. Copernico è colui che ha rotto le mura cristalline del mondo, ha liberato l’uomo. Bruno non riprende semplicemente Copernico, ma afferma di riprendere Copernico contro Osiander. Osiander aveva interpretato Copernico in questo senso: Copernico sostiene che non la Terra bensì il Sole è il centro dell’universo per una pura ipotesi matematica che permette di fare calcoli più eleganti, ma non pretendendo di parlare di cose reali.1)

Invece Bruno dà una interpretazione realistica di Copernico. Ne parla in questi termini:

«Or ecco quello, ch’à varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre [i cieli cristallini di Aristotele] che vi s’avesser potuto aggiungere, sfere, per realizzare dei vani matematici e cieco divider di filosofi volgari; cossi al cospetto d’ogni senso e raggione, co’ la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità, che da noi aprir si possano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi e n’apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al quale di nuovo sempre ne riaccoglie e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma e vita, ed anche feccia tra le sustanze corporali. [Copernico ha negato che la Terra sia la feccia, sia il ricettacolo, sia qualche cosa di inerte] - A questo modo sappiamo che, si noi fossimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo».

Viene portato alle estreme conseguenze quanto Copernico aveva solo adombrato: manca un centro, la terra è spossessata della centralità. Bruno fa un ragionamento di rigorosa consequenzialità: se la Terra non è più privilegiata per essere il centro di un sistema universale, perché dovrebbe essere privilegiata per essere l’unica dimora della vita? E perché dovrebbe essere privilegiata per essere l’unica dimora dell’intelligenza? La Terra non ha più il privilegio di essere il centro: ci sono infiniti mondi, ci sono infinite Terre con infiniti esseri intelligenti, e infinite razze e stirpi dotate d’intelligenza.

Gli altri mondi animati

È perso il privilegio della centralità, ma a questo punto il genio di Giordano Bruno va oltre Copernico: Copernico aveva sostituito al sistema geocentrico il sistema eliocentrico, aveva fatto della Terra un corpo non più privilegiato, che girava con gli altri pianeti intorno al Sole. Ma, Giordano Bruno spossessa anche il Sole di questa centralità. Dice: nell’infinito, per definizione, non c’è un centro; è possibile identificare il centro in una figura geometrica finita, ma nell’infinito non c’è un centro. Quindi tutti i mondi dell’universo hanno pari dignità. Non c’è più un luogo privilegiato, né la Terra né il Sole. In questo senso, per schematizzare, si può dire che Giordano Bruno è Copernico più Niccolò Cusano: accoppia la rottura del geocentrismo, su basi scientifiche, di Copernico, con il grande pensiero dell’infinito del neoplatonico Niccolò Cusano:

«A questo modo sappiamo che, si noi fossimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore; come possono essere altri corpi cossi buoni, e anco migliori per se stessi, e per la maggior felicità dei propri animali. Questi fiammeggianti corpi son que’ ambasciatori, che annunziano l’eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossi siamo promossi a scoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; e abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi [una tematica di carattere neoplatonico e in fondo anche agostiniana: «in interiore nomine habitat deus», Dio sta dentro di noi] più che noi medesimi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l’avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna».

Se è vero che dobbiamo cercare la verità, il divino, dentro di noi, «i coltori degli altri mondi», cioè gli abitanti degli altri mondi animati, non la devono cercare «appresso di noi». La verità l’abbiamo dentro di noi, non abbiamo più ossequio per un’autorità esterna, Dio non sta nei cieli, nell’empireo, ma dentro di noi, dentro di noi è l’infinito; la forza vitale, razionale dell’universo è dentro di noi. Gli altri esseri intelligenti non saranno soggetti a un principio di autorità e la verità non dovranno cercarla da noi, come noi la cercavamo nei cieli. Ma «l’avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi che noi alla luna»: anche gli altri esseri intelligenti avranno la scintilla divina e l’intelligenza dentro di loro, la divinità la porteranno dentro di loro. Si può sostenere che Giordano Bruno fonda un umanesimo molto più forte di qualunque altro tipo di umanesimo: la struttura dell’uomo, che ritrova dentro di sé la divinità, cioè, l’intelligenza, la chiave di accesso alla verità, è il modello dell’intelligenza di tutto l’universo. Tutti gli altri esseri intelligenti dell’universo che ci sono negli infiniti mondi viventi saranno tutti a misura d’uomo, in quanto saranno dotati di un’intelligenza, di una razionalità presente all’interno di loro stessi con la autonomia che la presenza della ragione nell’uomo comporta. E quindi saranno esseri liberi, autonomi, ragionevoli come siamo noi.

L’intelligenza dell’uomo è il modello dell’intelligenza di tutto l’universo. Per questo Bruno si può considerare un filosofo da terzo millennio: intende non solo la vita universale, l’intelligenza universale, ma l’intelligenza ha come sua misura l’uomo, e quindi gli altri esseri intelligenti saranno esseri, da un certo punto di vista, umani. L’uomo è veramente la misura di tutte le cose.

Questa visione, che si può considerare una visione copernicana allargata al neoplatonismo di Cusano, viene corroborata da Giordano Bruno con un’altra serie di tradizioni che lo portano a riassorbire il pensiero presocratico, che era già presente in Telesio, e alla sua riutilizzazione nei dialoghi di Francoforte. Per seguire questo percorso leggiamo dal De la causa:

«È dunque l’universo uno, infinito, immobile [i movimenti sono sempre relativi, sono interni all’universo, ma l’universo nella sua totalità è immobile: riprende l’argomento di Parmenide] […] Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però infingibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuori di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non ha cosa fuori di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiungere, cossi è da cui non si può sottrarre, per ciò che l’infinito non ha parte proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno, da cui patisca e per cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietà di nell’esser suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere, o pur ad altro modo di essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso, che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde».

L’eroico furore

Il rinascimento filosofico italiano si manifesta qui come una ripresa del pensiero greco. Bruno vuol dire: l’universo è uno, non ha cause esterne, ma se non ha una prima causa esterna non ha neppure cause successive esterne, tutto avviene al suo interno. Il suo dinamismo non può essere influenzato da altro in quanto non ha altro fuori di sé. Questa massa infinita di materia, soggetta a continue metamorfosi e trasformazioni, a vicissitudini continue, per usare la sua terminologia, ha un dinamismo interno dovuto alla sua composizione, alla sua inerzia, al suo movimento, non ha cause esterne. Non si può immaginare una causa esterna che arrivi, in un dato momento a modificarlo. Si muove solo per forze endogene e quindi tutto quello che avviene è necessario.

Si può affermare col maggiore pensatore del nostro Risorgimento, Bertrando Spaventa, che quando Giordano Bruno è stato portato sul rogo è morta con lui la filosofia in Italia, ma essa è trasmigrata in altri paesi europei, per ritornare, poi, nell’Ottocento, in Italia. La coincidenza tra Dio e la natura è la formula esemplare spinoziana Deus sive Natura. Anche il determinismo di Spinoza sembra adombrato già in queste fasi di Bruno. Quindi Spinoza come continuatore di Bruno. L’uomo si pone come creatore: l’uomo è a sua volta un artefice, un trasformatore grazie al fatto di essere in possesso della mano, di essere ingegnere oltre che filosofo, di essere non solo un contemplatore, ma un attore.

Per Aristotele la suprema attitudine dell’uomo è quella teoretica; la teoria è il culmine della vita umana. Per Bruno, invece, la teoria va accoppiata alla pratica, all’azione di trasformazione dell’uomo. L’uomo è animato, come tutta la realtà, ma in maniera particolarmente concentrata, da una intensa tendenza espansiva: l’eroico furore. L’eroico furore è lo slancio dell’uomo ad abbracciare il divino, che però è nella natura. C’è un’analogia con lo slancio mistico medioevale: il tentativo di superare l’individualità, di “indiarsi”, di cogliere il divino. Però qui il divino è nella natura stessa. Quindi l’eroico furore di Bruno si differenzia dal misticismo medievale. Dice Bruno negli Eroici furori:

«Or venneto al proposito. Questi furori, de’ quali noi ragioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria [mentre il misticismo ascetico, trascendente, comporta che l’uomo si deve dimenticare di sé, perciò dice oblio, per immergersi in Dio: l’indiarsi, per usare il termine dantesco, l’esperienza mistica, è il dimenticarsi di sé, è mettere da parte la propria finitezza e naturalità, è un oblio. Qui invece è una memoria, perché è un pezzo di natura, l’uomo, che si slancia in un eroico furore a incontrare altri pezzi di natura, altre entità altrettanto divine]. Non sono negligenze di se stesso [l’eroico furore non è un trascurare se stesso come fa l’asceta medievale], ma amori e brame del bello e buono, con cui si procure farsi perfetto con trasformarsi e assomigliarsi a quello. Non è raptamento sotto le leggi di un fatto indegno, con gli lacci de ferine affezioni: ma un impeto razionale, che segue l’apprension intellettuale del buòno e bello, che conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere».

L’eroico furore viene spiegato da Bruno riprendendo il mito di Atteone per rappresentare l’aspirazione dell’intelletto umano alla conoscenza divina. Atteone, cacciatore della mitologia greca, sorprende la dea Diana mentre fa il bagno; per questo, viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani. Bruno interpreta questa metamorfosi come simbolo dell’intelletto che, cercando la verità suprema, si trasforma e si unisce all’oggetto della sua ricerca. In questa visione, l’eroico furore è l’impulso che spinge l’anima a superare i propri limiti per contemplare il divino, anche a costo della propria dissoluzione. Così, Atteone diventa emblema del filosofo che, nella sua ricerca incessante, si perde nella vastità della conoscenza, raggiungendo una forma di unione mistica con il tutto.

L’eroico furore è un trasporto verso la natura, un’espansione, di sé, è il superamento dell’egoismo: questo è il cuore della morale di Bruno.

Il Cantus Circaeus

Bruno è stato visto come il portatore del pensiero laico; nell’Ottocento sono state create associazioni, case editrici, sette, logge massoniche, che si sono ispirate a Giordano Bruno come maestro del pensiero laico, anticlericale, democratico, ma Giordano Bruno non è democratico se intendiamo la democrazia in termini non banali. Nel suo Cantus Circaeus Bruno racconta di Circe, la maga che trasforma gli uomini in animali, ma la sua opera non è considerata in modo negativo, in quanto si moltiplicano i corpi umani, ma le anime umane sono poche. Allora fa bene Circe a trasformare gli uomini in maiali, in quanto compie una chiarificazione, perché gli uomini veri, cioè quelli in cui c’è una simmetria tra anima umana e corpo umano, sono pochi e sono schiacciati dai molti che sono solamente corporalmente umani.

La maga Circe compie un lavoro positivo perché, trasformando in maiali quelli che solo dal punto di vista corporeo sono umani, permette ai pochi esseri veramente umani di emergere e di prendere le redini del mondo. È un pensiero che oggi si direbbe poco democratico, ma è molto suggestivo. Gli uomini che non si fanno trasportare dall’eroico furore, gli uomini che presentano, come dice Bruno molto polemicamente, solo sembianze umane, da che sono caratterizzati? Per il fatto di essere ferini, bestiali, tanto vale che siano trasformati visibilmente in bestie.

L’essere ferini comporta il seguire l’istinto di autoconservazione, cioè, in termini morali, l’egoismo. Invece l’eroico furore è il disinteresse di sé, è lo slancio ad abbracciare la natura, gli altri esseri, è l’apertura verso il mondo, è il sentirsi partecipi del tutto. L’uomo-bestia tende a essere legato alla conservazione di sé, a essere egoista, a rompere i rapporti con la rete universale di cui è semplicemente un anello. La morale di Bruno è una morale dello slancio verso la natura, dello slancio verso la partecipazione alla vita universale senza chiudersi in se stessi:

«che segue l’apprension intellettuale del buono e bello, che conosce, a cui vorrebbe conformandosi piacere [c’è un richiamo all’Eros platonico: conformandosi all’altro vorrebbe anche piacere all’altro, cerca una corrispondenza di amorosi sensi con l’altro, cioè di entrare in comunicazione con gli altri; questo è l’eroico furore, l’Eros come unione] di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi ed investirsi de qualitade e condizione, per cui appaia illustre e degno. Diviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto [a contatto con il Dio oggettivato nella natura, presente negli altri, diventa egli stesso Dio, si risveglia la sua essenza divina] e d’altro non ha pensiero, che de cose divine, e mostrasi insensibile e impassibile in quelle cose, che comunemente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita».

La morte stessa di Giordano Bruno, alla luce del suo dialogo, non è una morte, è un atto di eroico furore: per amore della verità, Bruno va incontro alla morte fisica in un gesto di eroico furore, di affermazione della vitalità dell’universo. Giordano Bruno ha ragione nel dire che gli sconfitti sono i suoi carnefici.

CREDITI

Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.

1)
La pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium (1543) avvenne poco prima della morte di Copernico, con il sostegno del vescovo Tiedemann Giese e del matematico e teologo tedesco Andreas Osiander che, senza il consenso esplicito di Copernico, aggiunse una premessa anonima all’opera per cercare di prevenire accuse di eresia o opposizione da parte della Chiesa. Essa introduce il sistema eliocentrico di Copernico come un’ipotesi matematica piuttosto che come una descrizione fisica della realtà, cercando di mitigare il possibile conflitto con la dottrina teologica del tempo.