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NICCOLÒ MACHIAVELLI

Il tempo di Machiavelli

Pico della Mirandola è morto nel 1494, nel giorno in cui le truppe di Carlo VIII entravano in Firenze. Niccolò Machiavelli (1469-1527) si affaccia alla vita pubblica proprio nel 1494, ma solo nel 1498 diventa Segretario della Repubblica fiorentina.

Il tempo di Machiavelli è un tempo di svolta decisiva, che coincide con l’inizio dell’età moderna. Nel 1492 c’è stata la scoperta dell’America, ma il 1492 segna anche la morte di Lorenzo il Magnifico, che era stato definito “l’ago della bilancia politica italiana”; con Lorenzo il Magnifico i cinque principali potentati italiani: Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli, erano riusciti a equilibrarsi e i vari territori italiani avevano mantenuto l’indipendenza.

Ma che cosa si stava verificando all’inizio dell’età moderna? Si stavano formando i grandi Stati nazionali. Nel 1477, a Nancy, Luigi XI sconfigge Carlo il Temerario, l’ultimo grande feudatario: si può dire quindi che nel 1477 la Francia raggiunge la dimensione di Stato nazionale. Nel 1485 Enrico VII Tudor diventa re d’Inghilterra ponendo fine alla Guerra delle Due Rose tra i Lancaster e gli York: in quell’anno l’Inghilterra raggiunge la sua compattezza di Stato nazionale. Nel 1492 la Spagna di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona espelle gli ultimi residui di presenza araba dalla penisola iberica: l’emiro di Cordova viene sconfitto, e quindi si delinea l’unificazione dello Stato spagnolo. Machiavelli è nato nel 1469: nell’infanzia e nella giovinezza di Machiavelli cominciano a formarsi i grandi Stati nazionali.

L’Italia invece perde Lorenzo il Magnifico; inizia quella disgregazione che porterà a un fatto emblematico: l’anno in cui muore Machiavelli, il 1527, è l’anno del Sacco di Roma, del saccheggio della “Città eterna” ad opera dei Lanzichenecchi. Il 4 di maggio del 1527 Machiavelli assiste sgomento a questo oltraggio alla civiltà italiana e muore poco dopo, a giugno. Vive abbastanza da assistere a quello che temeva: proprio nel periodo in cui si creavano gli Stati nazionali, l’Italia, rimanendo divisa in principati, sarebbe stata inevitabilmente schiacciata.

L’opera di Machiavelli va collocata in questa precisa situazione, altrimenti lo slancio del Principe non si intende e le analisi del Principe arrivano a considerarla un opera immorale. Se collochiamo il Principe all’interno del contesto storico, scorgiamo come sia un’opera animata dalla speranza di una ripresa dei potentati italiani perché arrivino a costituire uno Stato nazionale che si possa mettere alla pari con gli altri Stati ed evitare le umiliazioni delle invasioni che invece poi vi furono: non nacque un principe, quale appunto lo vagheggiava Machiavelli, e l’Italia fu occupata da presenze straniere, fino all’indipendenza tardiva proclamata nel 1861.

Il Principe viene scritto nel 1513, dopo che Machiavelli ha avuto la possibilità di accumulare un’esperienza politica formidabile. Nel 1494, le truppe di Carlo VIII dilagano nei pressi di Firenze, i Medici vengono cacciati e nasce la Repubblica. La Repubblica fiorentina durerà dal 1494 al 1512. Il potere viene gestito dietro le quinte per quattro anni da Girolamo Savonarola, che cerca di pilotare il Consiglio Maggiore; a partire dalla fine del regime di Savonarola, Machiavelli assume la carica di segretario della Cancelleria della Repubblica fiorentina.

Machiavelli e Savonarola

Francesco De Sanctis afferma che Savonarola era la quint’essenza del Medioevo, Machiavelli era invece la quint’essenza dell’età moderna. Savonarola viveva nella luce del tramonto, invece Machiavelli era l’aurora di una nuova epoca.

Con Savonarola si chiudeva il Medioevo, l’età rivolta verso la trascendenza. Per Savonarola tutto quello che avviene è iscritto in un piano profetico e soprannaturale, mentre per Machiavelli bisogna volgersi all’immanenza. Le leggi della politica - questa sarà la sua grande scoperta - sono leggi immanenti, proprie del mondo, dei rapporti umani e non si possono far risalire a qualche cosa che sta al di fuori di questo mondo. Machiavelli per primo afferma che il mondo degli uomini vale per quello che è e bisogna capirne i meccanismi interni di funzionamento.

Per cogliere la differenza fra i due basta considerare come vedono la discesa di Carlo VIII: Savonarola la interpreta come una punizione divina, che egli aveva già da tempo previsto, come una piaga venuta a punire i vizi degli italiani e dei degenerati fiorentini in particolare. Anche Machiavelli parla della degenerazione, della “corruttela”, ma non rinvia a un piano profetico, a un piano sovrannaturale, bensì dice: “Carlo VIII ha conquistato l’Italia col gesso”. Carlo VIII è disceso in Italia ed è giunto fino a Napoli senza dover combattere, semplicemente segnando col gesso il terreno adatto agli accampamenti, invece che combattendo col ferro, con la spada. Carlo VIII ha conquistato l’Italia col gesso perché, rileva Machiavelli, l’Italia era divisa e soprattutto non aveva avuto la forza di crearsi milizie autonome: i vari principati dipendevano dalle infide milizie mercenarie. Quindi la discesa di Carlo VIII viene analizzata da due punti di vista diametralmente opposti: da una parte viene vista da Savonarola come un flagello quasi biblico, dall’altra Machiavelli cerca di analizzarne le cause tecniche per cercare di porre rimedio al ripetersi di eventi dello stesso genere.

Come dice De Sanctis, con Savonarola si chiude l’età della Divina Commedia. Che cosa vuol dire De Sanctis con questa espressione? Nella Divina Commedia, e nella mentalità medievale, tutti gli avvenimenti, i piccoli fatti privati come i grandi eventi pubblici, si comprendono solo se si iscrivono nel quadro provvidenziale generale, se si stagliano sullo sfondo del soprannaturale, della vita nell’aldilà. Con Machiavelli inizia una “commedia umana”: gli uomini agiscono per moventi, per passioni, per meccanismi che sono loro propri, che andranno capiti in quanto tali, perché se si vorrà agire in maniera efficace bisognerà stare dietro alla “realtà effettuale”, secondo la formula centrale del pensiero di Machiavelli.

Le vicende della vita di Machiavelli

Nel 1494 vengono cacciati i Medici, si insedia una Repubblica, guidata dietro le quinte da Savonarola, che finisce impiccato e bruciato nel 1498, poi poche settimane dopo Machiavelli inizia ad accumulare cariche che lo portano in Francia e in Germania come apprezzatissimo ambasciatore. Avrà anche l’incarico di una ambasceria prolungata presso Cesare Borgia, il Duca Valentino. Insomma gli è possibile seguire da vicino la vita politica degli Stati europei e dei potentati italiani. Queste esperienze sono preziose per Machiavelli, unite all’altra grande sua fonte d’ispirazione: il pensiero classico e la storia romana.

Nel 1512 deve abbandonare all’improvviso il mondo della pratica per il quale si sentiva tagliato. Nel 1512 si verifica un capovolgimento della situazione: Firenze era sempre stata alleata dei Francesi, ma il cardinale Soderini, fratello del gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini, decide all’improvviso un cambiamento di alleanze che si rivela disastroso: papa Giulio II, filo-francese, riesce ad avere il sopravvento e la Repubblica fiorentina viene sconfitta. Questo capovolgimento di alleanze non ben meditato si rivela una catastrofe: Giulio II e i Francesi hanno la meglio e vengono reinsediati i Medici. A questo punto Machiavelli viene messo da parte. Prima si diffida di lui, poi viene addirittura sospettato di far parte di una congiura, per cui dal novembre del 1512 al marzo del 1513 finisce in prigione, e riceve sei tratti di corda.

Machiavelli subisce la tortura, subisce il carcere, poi a marzo viene scarcerato e, esiliato, si rifugia a San Casciano in una sua tenuta, in un bosco dal quale ricavava legna. Nella lettera a Francesco Vettori, una delle pagine più belle della letteratura italiana, Machiavelli racconta le mattinate spese in faccende banali, triviali, a imbecerirsi, a diventare egli stesso rozzo come i taglialegna, descrive le sue soste in un’osteria a giocare a giochi d’azzardo, a vociare con i legnaiuoli, ma al tramonto Machiavelli torna a casa, sente il bisogno di vestire panni “reali e curiali”, di cambiarsi d’abito per poter entrare nelle antiche corti, cioè per mettersi a leggere Cicerone, Livio, Tacito, dialogando idealmente con loro. Entra in una dimensione spirituale di confronto, di dialogo con gli antichi.

In questo quadro, nella seconda metà del 1513, Machiavelli scrive di getto il Principe. Il Principe quindi ha alle spalle tutto il travaglio politico europeo e italiano dell’inizio dell’età moderna, la pratica di questo grande uomo politico, le sue letture dei classici antichi e infine la sua profonda riflessione teorica. Il Principe è stato composto da Machiavelli tra il luglio ed il dicembre del 1513 aprendo una parentesi nella stesura dei Discorsi: Machiavelli aveva già messo mano a stendere i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, un commento a Livio, ma ad un certo punto sentì il bisogno di scrivere qualche cosa di più concentrato, i consigli a un principe ideale.

Per un certo periodo non venne ascoltato, poi di nuovo gli si affidarono incarichi sempre più importanti finché Machiavelli, per indicazione di Guicciardini e con Guicciardini stesso, nel 1527 iniziò ad osservare le mosse dei Lanzichenecchi, i mercenari svizzeri che erano dilagati nella pianura padana.

Machiavelli fu attivo fino a quaranta giorni prima della morte, cercò di evitare che i Lanzichenecchi sfondassero verso Firenze. Ma la fiumana dei Lanzichenecchi, deviata da Firenze, invase Roma, compiendo quel saccheggio che segna l’inizio della decadenza italiana. A quel punto vengono di nuovo cacciati i Medici. Machiavelli viene considerato con diffidenza: prima era stato segretario della Repubblica, poi si era riavvicinato ai Medici, e ora che nasce una nuova repubblica, i nuovi repubblicani diffidano di lui che nel frattempo aveva avuto nuovi incarichi dai Medici. Muore con l’amarezza di essere messo di nuovo da parte nella vita politica e con la grandissima amarezza del saccheggio di Roma.

Il Principe

Il Principe è dedicato a Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico. Il nipote del grande Lorenzo non era all’altezza del nonno: pare che nel momento in cui gli fu donato il manoscritto del Principe, che fu pubblicato solo dopo la morte di Machiavelli, un signorotto gli regalò un paio di cani, e Lorenzo fu molto più contento di quest’ultimo regalo piuttosto che del Principe, con grande delusione di Machiavelli.

L’inizio del Principe è immediato, asciutto: Machiavelli dice che tutti gli Stati si dividono in repubbliche o principati, i principati possono essere o nuovi o ereditari, e così procede. Quelli nuovi si possono acquisire per virtù o per fortuna, e così via. Un qualsiasi trattato medievale comincia invece con affermazioni di carattere generalissimo. Dante inizia il Convivio affermando: “Ogni uomo tende alla perfezione”, attraverso un passaggio logico ne ricava: “Di conseguenza ogni uomo tende a sapere”. Fonda queste affermazioni sull’autorità di Aristotele e poi procede. Il trattatista medievale segue un meccanismo mentale di tipo aristotelico: parte da princìpi generalissimi per arrivare gradualmente al particolare.

Come ha detto Luigi Russo, insigne storico della letteratura italiana, c’è una struttura a piramide del ragionamento medievale, della trattatistica medievale. Dalle prime cinque-sei righe del Prìncipe si capisce che ci troviamo in tutta un’altra atmosfera: Machiavelli inizia direttamente con uno stile completamente diverso, non fa premesse generali, e tutto lo svolgimento del Principe è una serie di esempi concreti. Il suo è stato definito un ragionamento “a catena”. Dal ragionamento a piramide, di tipo medievale, aristotelico, si passa al ragionamento “a catena” che poi confluisce nella prosa scientifica moderna.

Francesco De Sanctis sostiene che Machiavelli è il grande scienziato della politica che ha aperto la strada al grande scienziato della natura Galileo Galilei. C’è un’affinità tra i due nel senso che entrambi sono dotati di uno spirito di osservazione concreto, estraneo alla mentalità medievale, ed entrambi seguono ragionamenti a catena da cui traggono conclusioni, rifiutando il ragionamento aristotelico per sillogismi, per vie gerarchiche, proprio del Medioevo.

Anche questo ci testimonia della distanza tra Machiavelli ed il Medioevo. Machiavelli è un umanista, per lui contano tanto l’esperienza diretta quanto l’esperienza indiretta che ci possono fare acquisire gli antichi: possiamo crescere se ci ispiriamo ai grandi. E bisogna rivolgersi ai classici per acquisire esperienza e per imitarli. Machiavelli nel capitolo VI del Principe scrive:

«Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempi; perché camminando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe un uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare».

Siamo nani sulle spalle di giganti, non possiamo pretendere di creare vie originali, ma dobbiamo seguire vie già battute se vogliamo andare oltre. Bisogna imitare, ma se si sceglieranno modelli bassi si rimarrà in basso, bisognerà imitare quindi modelli eccellenti. Bisogna attenersi all’esperienza dei classici e fondere l’esperienza dei classici con la nostra esperienza. Il risultato che ne viene è questo: dai classici e dall’esperienza emerge un mondo autonomo di leggi della politica che vale di per se stesso.

Machiavelli, è lo scopritore dell’autonomia della politica, come ha sostenuto Benedetto Croce. Da questi insegnamenti Machiavelli perviene alla conclusione che la storia funziona in base a leggi interne proprie, intrinseche, immanenti, e se si vuole agire nella storia bisogna scoprire e seguire queste leggi. Le leggi che regolano i rapporti umani non vengono imposte da una entità superiore, ma sono leggi proprie del mondo umano, del mondo politico, del mondo della città e dello Stato, della comunità umana.

Politica e morale

Le leggi politiche, in quanto a sé stanti, sono autonome rispetto alle leggi della morale. Le leggi della morale, che provengono da un insegnamento superiore di carattere religioso, teologico, filosofico, hanno validità, ma sono estranee al mondo della politica. Se vogliamo agire nel mondo delle organizzazioni umane, degli Stati, della politica, dovremo identificare le leggi specifiche della politica e non sovrapporre alla politica le leggi di un altro mondo, che è il mondo della morale. Questa scoperta di Machiavelli è stata enunciata in maniera chiara da Benedetto Croce, che in Etica e politica scrive:

«Il nome di Machiavelli è diventato quasi simbolo della pura politica, ed esso segna certamente una forte crisi nello svolgimento della scienza. Non già che l’antichità non avesse alcun sentore della distinzione e dell’antinomia tra politica ed etica: il fatto stesso che la loro materia fu attribuita a due diverse discipline comprova che quella coscienza vi fu»

Benedetto Croce

Politica ed etica esistevano già nell’antichità come discipline separate, come branche dei sistemi filosofici. C’era una consapevolezza del fatto che si tratta di due sfere distinte e separate, ma nessuno aveva portato questa separazione alla chiarezza concettuale a cui l’ha portata Machiavelli. Machiavelli ha fatto emergere questa distinzione che era solo intrinseca nel pensiero precedente. Prosegue Croce:

«[…] e dibattiti come quelli sul diritto giusto e l’ingiusto, il naturale e il convenzionale, e anche sulla forza e sulla giustizia, e simili, mostrano come l’antinomia fosse talvolta avvertita e il problema correlativo si profilasse. Ma quell’antinomia non assurse mai al primo piano, non formò centro di travaglio e di meditazione».

Benedetto Croce

La politica segue quindi leggi necessarie sue proprie, come la natura nei suoi fenomeni segue leggi necessarie, che non si possono accettare o non accettare, perché quelle sono e quelle restano. Le leggi della politica sono necessarie e sono autonome, cioè non sono coincidenti con quelle di altre sfere.

«Il Machiavelli scopre dunque la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale»: se è di qua dal bene e dal male vuol dire che è amorale, non è immorale, in quanto l’immorale è il contrario della morale.

La politica per Machiavelli è fuori della morale, quindi è amorale. E Croce aggiunge: «… che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta». È un’espressione molto incisiva: si può rimpiangere il fatto che la politica funzioni nei modi che Machiavelli descrive, ma i modi quelli sono e non si possono esorcizzare con l’acqua benedetta, con parole d’ordine, con un appello morale, con discorsi retorici, con qualche cosa di estraneo alla dinamica politica stessa.

La “realtà effettuale”

Il perseguire le leggi della politica porta a identificare il principio decisivo della “realtà effettuale”. Leggiamo dal XV capitolo del Principe, in cui inizia la trattazione del comportamento concreto del principe:

«Ma sendo l’intento mio di scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa».

Machiavelli respinge le visioni teologiche della politica e le visioni utopistiche. È facile immaginare paesi beati, regni di Bengodi, utopie, repubbliche perfette, ma tutto questo non aiuta: bisogna seguire la realtà effettuale, cioè seguire l’essere e non immaginare un dover essere. Machiavelli scopre l’essere della politica contrapposto alla precettistica, al dover essere.

«E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero. Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono, e usarlo o non l’usare secondo la necessità».

Queste affermazioni sono alla base delle accuse di immoralismo rivolte a Machiavelli: il principe deve poter essere non buono, però Machiavelli aggiunge: «e usarlo o non l’usare secondo la necessità».

Machiavelli non predica la cattiveria, la crudeltà, la strumentalizzazione. Qualcuno ha detto che Machiavelli propone solo la dimensione dell’utile. Alessandro Manzoni ha inaugurato questo tipo di interpretazione di Machiavelli, che avrebbe visto tutto in funzione dell’utilità, della strumentalità. Il principe per Machiavelli non deve essere cattivo, ma deve essere capace di essere cattivo, può usare o non usare la bontà e la cattiveria secondo la necessità. Il termine chiave è “necessità”. Se il principe è cattivo, lo è per necessità. Il principe è costretto a volte a essere cattivo perché gli uomini non sono buoni, ma “tristi”, cioè malvagi. L’andare “drieto”, dietro alla realtà effettuale ci fornisce un primo insegnamento drammatico: gli uomini sono cattivi.

Il pessimismo antropologico di Machiavelli

Questo è il fondamento di tutto lo sviluppo successivo del pensiero di Machiavelli, che è pessimista circa la natura umana. Questa antropologia pessimistica viene delineata anche nell’opera La Mandragola: l’umanità è propensa al male, l’uomo è tendenzialmente malvagio.

In questo senso Machiavelli si pone sulla stessa linea di grandi pensatori moderni quali Lutero e Hobbes. Nell’età moderna, fino a Rousseau, che capovolgerà questa visione, l’uomo viene visto come incline al vizio: si parte dal dato di fatto del “male radicale” dell’uomo. Lutero vedrà il rimedio alla cattiveria naturale dell’uomo nella grazia divina, quindi nello slancio della fede, elaborando la teoria della salvezza per fede. Machiavelli invece si mette sulla strada che sarà poi percorsa da Hobbes: il male è la tendenza fondamentale degli uomini e porta allo scatenamento degli egoismi. Il Principe quindi è una sorta di remedium iniquitatis, un rimedio al male. Per evitare che ci sia uno scatenamento crudele degli egoismi è opportuno ipotizzare un potere superiore che vi metta freno. L’uso della forza da parte del principe è giustificato perché il male che egli può esercitare evita un male maggiore, in quanto il male che egli esercita è in funzione della creazione e del mantenimento dello Stato, che supera la dimensione del prevalere degli egoismi e crea le condizioni del pacifico e ordinato vivere civile.

Questa antropologia pessimistica è concentrata nel capitolo XVII, al cui termine si legge:

«Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma quando ti si appressa e’ si rivoltano».

Data questa situazione, l’unico rimedio è il timore. Questa visione drammatica, implicante che per arrivare al bene bisogna passare per un fatto coercitivo (e la coercizione è sinonimo di violenza), è stata egregiamente sintetizzata da Eugenio Garin, il quale parla di una “dura esigenza della città terrena”. Machiavelli ha eliminato la città celeste e si ritrova, come uomo rinascimentale, nell’immanenza della città terrena. La città terrena presenta dure esigenze: gli egoismi individuali si possono superare solo con una forza coercitiva di tipo superiore. La forza coercitiva superiore che blocca il dilagare degli egoismi è quella dello Stato, che è fondato dal principe.

Il principe non può comportarsi come si comporta una persona nella vita privata: egli deve ispirarsi a una morale di tipo diverso, che poi alla fine del Cinquecento coloro che discuteranno e proseguiranno l’opera di Machiavelli chiameranno “ragion di Stato”. Se il principe si ispira alla morale privata sbaglia: egli è tenuto ad ispirarsi alla ragion di Stato.

Vittorio Hösle su questo punto commenta che se nella vita privata vale il principio indiscutibile di porgere l’altra guancia, nella vita pubblica “non si può disporre delle guance degli altri”. Il principe per essere efficace, cioè per essere buono, deve a volte ricorrere a comportamenti che non sono coincidenti con quelli dettati dalle norme della morale individuale. Una cosa è il comportamento individuale con le sue leggi e i suoi valori, un’altra è il comportamento di chi ha la responsabilità di una comunità, che può essere anche costretto a usare il male in vista di un fine di carattere superiore.

Machiavelli non predica la possibilità di agire male per fini personali, questo è evidente in tutto il Principe e anche nelle altre sue opere. Per Machiavelli è ammissibile agire contro le norme morali soltanto se si agisce in nome di princìpi di tipo superiore. Tali princìpi si riconnettono soprattutto alla creazione e al mantenimento dello Stato, inteso come valore supremo, che garantisce la sicurezza, la pace tra i cittadini, la legalità, l’ordinato sviluppo civile.

Per Machiavelli non solo il valore più alto è lo Stato, garante della sicurezza e dello sviluppo civile, ma è un valore anche l’indipendenza dello Stato: la comunità per potersi organizzare deve essere indipendente, non può essere schiava. È implicito questo principio: si può venire meno a un valore di tipo inferiore solo se si agisce in vista di un valore di tipo superiore, ma non viene assolutamente predicata l’immoralità.

De Sanctis, uomo del Risorgimento, riprende con estrema energia questo punto:

«Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l’uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo su’ rottami del Medio Evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell’uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull’uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell’uomo».

Questi sono i valori che a De Sanctis sembra possibile estrarre da Machiavelli. Il valore della nazionalità implica che ogni popolo deve essere indipendente, ma il principio di nazionalità che si può estrarre da Machiavelli non ha niente a che fare col nazionalismo, che è una degenerazione del principio di nazionalità in quanto implica la pretesa che una nazione abbia il sopravvento sulle altre.

Cesare Borgia

A questo punto è opportuno considerare uno dei brani che più suscitano scompiglio nelle menti esclusivamente rivolte al senso morale privato. Non si può discutere sul fatto che Machiavelli compia una esaltazione del Duca Valentino, Cesare Borgia, un personaggio immorale dal punto di vista della morale privata. Egli è figlio di Rodrigo Borgia, cioè di papa Alessandro VI.

Alessandro VI gli crea un regno nelle Romagne con l’aiuto dell’esercito francese: scioglie il matrimonio di Luigi XII, che impedisce a quest’ultimo di perseguire certe sue politiche dinastiche e di sposare la vedova di Carlo VIII, e, in cambio di questo favore, Cesare Borgia riceve milizie con le quali si crea un piccolo principato nelle Romagne, poi estende questo principiato a Urbino, a Perugia, a Pistoia, infine si avvia a diventare signore dell’Italia centrale. Si rende poi conto che non può dipendere dalle “armi ausiliarie”, come dice Machiavelli, cioè da armi che gli vengono date in aiuto dai Francesi, e alla prima occasione si distacca dall’esercito francese e si fornisce di un’armata propria di mercenari. Questi mercenari sono legati alle famiglie Orsini e Colonna che sono infide, per cui, come viene descritto nel capitolo VII del Principe, a un certo punto il Duca Valentino compie un gesto efferato che è stato analizzato da Machiavelli molto a fondo nella Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini. Si mostra benevolo verso questi capi mercenari, verso le famiglie Orsini e Colonna. Riunisce in un convito a Senigallia i maggiori esponenti delle famiglie a lui ostili e, nel momento in cui sono riuniti gli uomini di maggiore prestigio di queste famiglie, li fa sgozzare a tradimento tutti insieme.

Nel capitolo VII del Principe Machiavelli scrive:

«E perché questa parte [cioè questa parte della vita di Cesare Borgia] è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lasciare indietro. Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, e’ quali più presto avevano spogliato i loro sudditi che corretti e dato loro materia di disunione non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenza, giudicò fosse necessario, a volerla ridurre pacifica e obbediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco, uomo crudele ed espedito [espedito è termine machiavellico: sbrigativo, spiccio], al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò il duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con un presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo».

Una volta che Remirro de Orco ebbe fatto piazza pulita dei signorotti locali, dei banditi, dei predoni, la gente cominciò a essere soddisfatta di questo e Cesare Borgia intuì che invece dell’uomo crudele, ci volesse adesso una normale amministrazione, quindi creò un “avvocato”, cioè un difensore per ogni città della Romagna e un giudizio civile, cioè un governo giusto, equilibrato, pacifico.

«E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare gli animi di quelli popoli e guadagnarseli in tutto, volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era nata da lui ma dalla acerba natura del ministro».

Dal momento che Remirro de Orco era stato crudele, aveva lasciato lutti, volontà di vendetta, Cesare Borgia adesso pensa opportuno prendere le distanze da lui per far intendere che quelle crudeltà erano dovute a Remirro de Orco e non a lui stesso, Cesare Borgia. Allora che cosa fa?

«E, presa sopra questo occasione [prese il pretesto di un ipotetico tradimento], lo fece a Cesena una mattina mettere in dua pezzi in sulla piazza, con un pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto [una mattina gli abitanti di Cesena al risveglio trovano il corpo di Remirro de Orco spaccato in due]. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi».

I popoli della Romagna a quel punto vengono soddisfatti nella loro esigenza di vendetta, ma rimangono “stupidi”, stupiti: il Duca Valentino, nel momento in cui li libera dal personaggio crudele manda anche un messaggio indiretto, fa capire che il suo pugno è ancora più ferreo di quello di Remirro de Orco, e cosi pacifica la Romagna in maniera definitiva. Questa sua mossa politica è molto efficace e gli tornerà utile quando arriverà il momento del suo tracollo.

Continuiamo a leggere da questo formidabile capitolo VII:

«Ed era nel duca tanta ferocità e tanta virtù, e si bene conosceva come gli uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in si poco tempo si aveva fatti, che se lui non avesse avuti quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, avrebbe retto a ogni difficultà. E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna lo aspettò più di uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e benché Baglioni, Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono seguito contro di lui».

A che cosa si riferisce? La fortuna di Cesare Borgia era dovuta al fatto di essere figlio di un papa. Approfittando di un malore di Alessandro VI, che poi lo portò alla morte nel 1503, i domini del Duca vennero messi in pericolo dalle armate francesi, ma il Duca Valentino era stato previdente: aveva fatto in modo da eliminare i cardinali ostili e da farsi amici quelli che si doveva fare amici, per cui si apprestava a pilotare l’elezione del nuovo pontefice. Quindi anche in questo era stato “virtuoso”, cioè era stato capace, energico e previdente. Anche quando si trova in Roma con il papa che sta morendo, la Romagna non lo abbandona perché soddisfatta della politica che egli ha attuato, e le famiglie ostili non riescono a prendere il sopravvento su di lui.

Ma che cosa succede? Veniamo al tema della fortuna: nel momento in cui muore Alessandro VI, Cesare Borgia sta male (probabilmente per un attacco di malaria, secondo altri viene avvelenato, comunque si trova in pericolo di morte). Aveva previsto che il padre potesse morire, aveva fatto in modo che il collegio cardinalizio fosse più o meno favorevole a lui, ma non avrebbe potuto prevedere che nel momento di massima necessità fosse egli stesso in condizioni fisiche gravissime. Quindi viene sopraffatto per la fortuna, non per la virtù, che gli viene riconosciuta fino in fondo da Machiavelli. Continuiamo:

«[…] possè fare, se non chi e’ volle, papa, almeno che non fussi chi non voleva». >

Riuscì a pilotare il conclave in modo che se pur non riuscì a far eleggere papa chi voleva lui, almeno fece in modo che non fosse papa un suo nemico.

«Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, ne’ di che fu creato Iulio II [proprio nei giorni del conclave che portò il cardinale Della Rovere a diventare papa Giulio II] che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo il padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire».

Aveva previsto tutto fuorché il fatto che mentre il padre stava morendo stesse anch’egli male.

«Raccolte io adunque tutte le azioni del Duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di proporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’armi d’altri sono ascesi allo imperio».

Come si può spiegare l’ammirazione di Machiavelli per un personaggio di questo genere? Cesare Borgia, “usando la volpe e il leone”, cioè l’astuzia e la forza, riuscì a creare un potentato nell’Italia centrale che, se non fosse stato per la “fortuna”, secondo Machiavelli avrebbe potuto portare all’unificazione dell’Italia, o comunque all’unificazione dei principati italiani, a una forza egemone capace di mettere l’Italia alla pari delle altre nazioni europee. Il Duca Valentino è un personaggio crudele, ma solamente attraverso quei mezzi, nell’Italia di allora, tra truppe mercenarie e intrighi stranieri, si sarebbe potuto creare un potentato italiano capace di contrastare le potenze straniere e di garantire una pacifica e libera convivenza nella Penisola. Per veder però come questa difesa del Duca Valentino non sia una difesa della crudeltà e dell’efferatezza in assoluto, è opportuno leggere un altro passo tratto dal capitolo VIII del Principe.

Agatocle

Nel capitolo VIII Machiavelli parla di Agatocle, un tiranno di Siracusa vissuto intorno al 300 a. C, e si esprime in termini diversi. Apprezza Agatocle come capo militare, ma dice:

«Chi considerassi adunque le azioni e vita di costui, non vedrà cose, o poche, le quali possa attribuire alla fortuna; con ciò sia cosa, come di sopra è detto, che non per favore d’alcuno ma per li gradi della milizia, e’ quali con mille disagi e pericoli si aveva guadagnati, pervenissi al principato e quello dipoi con tanti partiti animosi e periculosi mantenessi. Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ sua cittadini, tradire gli amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione».

È una posizione chiarissima: Agatocle è stato un abile soldato e si è riuscito a insediare al potere, ma non si può chiamare virtù ammazzare i propri cittadini, tradire gli amici, essere senza fede, senza pietà, senza religione.

«e’ quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ pericoli, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché elli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano: nondimanco la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra li eccellentissimi uomini celebrato».

Si tratta di uno dei tanti passi di Machiavelli in cui emerge con chiarezza che la forza è ammissibile solo per fini superiori. Quando Agatocle la usa solo per diventare un tirannello, senza un’ispirazione superiore, Machiavelli non esita a condannarlo in maniera netta e inequivocabile.

Il principe centauro

Eppure quale dovrà essere il carattere del principe? Il principe dovrà essere per metà umano e per metà ferino, dovrà essere un centauro. Se vuole stare dietro alla realtà effettuale, il principe deve essere capace di avere tratti della bestia e dell’uomo.

«Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere. L’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dell’uomo, quel secondo è delle bestie».

Quello che è propriamente umano sono le leggi, la violenza si frena con la legge. L’altro metodo, quello della forza, è delle bestie. Machiavelli capisce che per arrivare al dominio della legge, cioè alla vita civile ordinata, in cui la violenza viene frenata in quanto esiste lo Stato sovrano detentore del monopolio della forza - per arrivare al dominio della legge bisogna passare purtroppo per la forza. Per giungere a una dimensione pienamente umana bisogna affrontare il passaggio per una fase che comporta l’uso della forza.

«Quel primo è proprio dell’uomo [cioè le leggi], quel secondo è delle bestie: ma perché il primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dagli antiqui scrittori [gli antichi non sono stati così spregiudicati da dire che il politico deve essere per metà bestia, ma l’hanno espresso con un mito] li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi».

Sono frasi celebri in cui Machiavelli fonda la forza e l’astuzia come virtù del principe. Il principe deve essere in parte ferino, ma solo quando la necessità lo spinge; dovrà saper usare, a seconda delle necessità, la sua parte bestiale o la sua parte umana.

Virtù e fortuna

Veniamo alla triade finale di concetti fondamentali del pensiero di Machiavelli che è necessario mettere in luce: la necessità, la virtù e la fortuna.

Che cosa significa “necessità”? Ci sono leggi oggettive nella natura come nel mondo degli uomini. La politica deve diventare oggetto di una scienza, che ci dirà le necessità, cioè i meccanismi necessari, inevitabili, ineliminabili di funzionamento del mondo politico. Chi vorrà agire politicamente dovrà osservare la necessità, dovrà sottomettersi alla necessità. L’uomo virtuoso sarà colui che riesce a leggere nella necessità. La virtù per Machiavelli non è la virtù cristiana, bensì la virtus romana che implica energia, fermezza, coraggio, ma significa anche, come dice Eugenio Garin: «Conoscere i tempi e l’ordine delle cose».

L’uomo virtuoso è colui che cerca di indagare la necessità, di domare la necessità per perseguire il suo progetto. Il progetto di creazione di uno Stato, premessa di una convivenza civile, lo si può perseguire solo se si conosce la necessità, ma gli eventi umani sono così complessi che c’è sempre qualche cosa che sfugge. La definizione che di fortuna dà Eugenio Garin è: «Qualche cosa che è fuori di ogni umana congettura».

La fortuna non è il caso, cioè qualche cosa che potrebbe avvenire e anche non avvenire, bensì è qualche cosa di necessario, ma fuori della capacità umana di previsione. In proposito Machiavelli dice: «Le cose umane stanno per metà in mano alla virtù e per metà in mano alla fortuna». L’uomo, se usa gli strumenti della scienza, se si mette dietro alla realtà effettuale, può coglierne le dinamiche, le leggi, i processi di sviluppo, e può introdurre nella realtà il suo progetto. Dovrà pensare al cinquanta per cento delle cose che sono in suo potere, ma la fortuna ha in mano l’altra metà delle cose. Si profila un’ombra di pessimismo.

Leggiamo un brano tratto dal capitolo XXV, che ha per oggetto proprio la virtù e la fortuna:

«Nondimanco perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro senza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti e con ripari e argini, in modo che crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso».

La fortuna è come un fiume in piena che travolge tutto, ma se nei tempi tranquilli l’uomo previdente crea ripari e argini, la fortuna non riesce a sopraffarlo e l’impeto del fiume in piena sarà frenato. Possiamo dominare la fortuna se siamo previdenti. «Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta e’ sua impeti dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla».

La messa all’Indice del Principe

Machiavelli fu attaccato dalla Controriforma e i suoi libri vennero inclusi nell’Indice dei libri proibiti nel 1559; il gesuita Possevino disse che le sue opere erano frutto del diavolo, ma c’è stata una lettura di Machiavelli, da Traiano Boccalini a Ugo Foscolo, che lo ha difeso. Traiano Boccalini nei Ragguagli di Parnaso, un’opera del 1612, ha sostenuto: “Machiavelli è stato bravo, perché è vero che descrive tante nefandezze, ma per far capire ai sudditi come si possono difendere dai loro prìncipi. Machiavelli è come un guardiano di pecore che mette denti di lupo in bocca alle pecore”. Questa interpretazione è analoga a quella di Jean-Jacques Rousseau, il quale ha sostenuto che Machiavelli è un grande filosofo della libertà e della repubblica, che in apparenza dà una ricetta al principe, ma in effetti smaschera come funziona il potere, denuncia il potere. Questa linea di interpretazione è culminata in Ugo Foscolo. Nei Sepolcri Foscolo pone Machiavelli nel Pantheon, tra i grandissimi, indicandolo come colui che ha scoperto «di che lacrime grondi e di che sangue, lo scettro ai reggitori». Machiavelli ha mostrato come lo scettro dei principi, dei governanti, grondi lacrime e sangue, ha cioè smascherato i meccanismi del potere. Questo è vero, ma costituisce una lettura moderata di Machiavelli.

Invece in Machiavelli c’è qualche cosa di più, c’è l’istanza della fondazione dello Stato moderno: egli capiva che il punto di passaggio nevralgico dell’età moderna è la costituzione dello Stato come forza egemone che blocca i poteri feudali, locali, e crea una grande comunità nazionale, pacificata e ordinata. Per questo ideale si giustifica tutto. Allora è vero che dal Principe si può ricavare la massima: “il fine giustifica i mezzi”, ma il fine giustifica i mezzi quando il fine è un fine superiore. Per Machiavelli non tutti i fini giustificano tutti i mezzi. Su questo Machiavelli è molto chiaro: ha parole sprezzanti sullo spirito mercantile, lo spirito di guadagno. Per lui agire con qualunque mezzo per il fine individuale di diventare più potente, o più ricco, non è assolutamente giustificato. E’ vero che il fine giustifica i mezzi, quando il fine è la salvezza dell’ordine, della sicurezza e della libertà dell’intera comunità organizzata in Stato. Il fine giustifica i mezzi quando il fine è un fine elevato, il fine della salvezza della comunità, superiore ai fini individuali: questo è il vero insegnamento di Machiavelli. Allora, come è stato detto da Luigi Russo, il capitolo XXVI è l’anima di tutto il Principe.

L’ultimo capitolo del Principe

Il capitolo XXVI, l’ultimo, ha un tono completamente diverso dagli altri: non si parla più del passato, degli espedienti tecnici del potere, ma dell’Italia che è percorsa, è battuta, è saccheggiata dagli stranieri, e si auspica che in Italia possa nascere un principe che sollevi la situazione italiana e la riporti al livello europeo. Luigi Russo ha scritto che le premesse logiche e sentimentali del Principe stanno tutte nel capitolo XXVI: se consideriamo il capitolo XXVI come prologo invece che come conclusione, si comprende tutto il resto, che altrimenti sembra una serie di precetti immorali. Si tratterebbe di una retorica all’inverso, di una precettistica del male contrapposta alle precettistiche medievali del bene. Invece non è così. Il Principe è tutta un’altra cosa.

Il Principe è ispirato dalla volontà di fondazione di uno Stato moderno nazionale unitario. Si legge nel capitolo XXVI:

«Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla universalità delli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in benefìzio di uno principe nuovo che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario volendo vedere la virtù di Moisè che il popolo d’Israel fussi stiavo in Egitto, [un liberatore è venuto fuori proprio nel momento in cui gli Ebrei erano schiavi, nel momento della necessità emergono i grandi uomini, questa è la sua speranza] e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro era necessario ch’e’ Persi fossero oppressati dai Medi, e la eccellenza di Teseo che li Ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ella è di presente, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa e avessi sopportato d’ogni sorte ruina».

Questo è l’afflato suo: vede la patria italiana e la patria fiorentina percorse, saccheggiate da bande straniere e spera che nel momento del maggiore pericolo possa nascere un eroe liberatore come Mosè, Teseo e Ciro.

«Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia dopo tanto tempo vegga uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne: con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? quali popoli li negherebbano la obbedienzia? quale invidia se li opporrebbe? quale italiano li negherebbe l’ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre Casa Vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto li sua auspizii si verifichi quel detto del Petrarca:
Virtù contro a furore
Prenderà l’arme;
e fia el combatter corto
Ché l’antico valore.
Nell’italici cor
non è ancor morto
».

De Sanctis: è stato un critico letterario, saggista e politico italiano, tra i maggiori critici e storici della letteratura italiana nel XIX secolo e più volte ministro della pubblica istruzione

SEI TRATTI DI CORDA Di uso diffuso, data la semplicità della procedura, consisteva nel legare con una lunga corda i polsi del reo dietro la schiena e poi nell’issare il corpo per mezzo di una carrucola. Il peso del corpo veniva così a gravare tutto sulle giunture delle spalle. Per aggravarne gli effetti, la corda poteva essere allentata di colpo per un certo tratto e bloccata; la gravità sul peso del corpo provocava uno strappo ai muscoli e la slogatura delle braccia all’altezza dell’articolazione delle spalle. Per aumentare ulteriormente l’efficacia della tortura, ai piedi della vittima potevano essere legati dei pesi; generalmente la conseguenza del trattamento comportava storpiatura a vita.