Passiamo a Gorgia, l’altro grande sofista. La dottrina di Gorgia, abbiamo detto, è simmetrica e antitetica rispetto a quella di Parmenide: Parmenide afferma che l'essere è, e che c’è uno stretto legame tra essere e pensiero, Gorgia dice esattamente il contrario. Nel suo scritto Sul non ente egli sostiene che niente esiste, cioè l'essere non è, che seppure esistesse non sarebbe conoscibile, seppure fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Viene demolito sia il piano ontologico, sia il piano gnoseologico, sia il piano della comunicazione, si arriva a quello che è stato chiamato ‘nichilismo’ (dalla parola nihil, ‘niente’ in latino): cioè annientamento totale di tutti i valori e di tutte le prospettive.
Platone riassume la dottrina di Gorgia così: «Gorgia, nel suo libro intitolato Del nonente o della natura si fonda su tre capisaldi che si svolgono, articolandosi uno di seguito all’altro: uno e primo è che nulla è; secondo, che se anche alcunché è, è umanamente inafferrabile; terzo, che se pure è afferrabile, è certo incomunicabile e non spiegabile agli altri». I ragionamenti di Gorgia sono molto sottili: oggi quando si rimprovera a qualcuno di essere un sofista gli si vuol dire che è un sofisticato ragionatore e che cerca di ingannare con sottigliezze.
In breve, qual è il ragionamento di Gorgia? L'essere non esiste perché, dice Gorgia, se l'essere esistesse, o dovrebbe essere eterno, o dovrebbe essere generato. Possiamo ripercorrere brevemente questa argomentazione che dà l’idea, cui ho accennato prima, dello sviluppo delle capacità di analisi dovuto ai sofisti, tesaurizzata da Socrate e Platone. Dice Gorgia: se l'essere esiste, o è eterno o è generato; ora, eterno non può essere, perché se è eterno vuol dire che non ha un principio, se non ha un principio vuol dire che non ha un limite, se non ha un limite è illimitato, è indeterminato, e, paradossalmente, se è illimitato e indeterminato non è in nessun luogo, ma se non è in nessun luogo allora non è.
Ripetiamo: se l'essere è eterno vuol dire che è senza principio, cioè non ha un limite iniziale, è illimitato, se è illimitato vuol dire che non è in nessun luogo, ma ciò che non è in nessun luogo non è, quindi l'essere non è. Questo se l'essere è eterno. Se l'essere è invece generato, esso o è stato generato dal non essere, o è stato generato dall'essere: dal non essere non può essere stato generato (per il buon motivo che il non essere per definizione non è), ma non può essere stato generato neppure dall'essere, perché l'essere è ciò che è, è ciò che è già, e proprio perché è già non può essere generato, si creerebbe una contraddizione tra generante e generato all’interno dello stesso essere: l'essere non può essere generato se è già. Se l'essere non è né eterno, né generato, esso non è.
Gorgia afferma poi che, ammesso pure che l'essere fosse, non sarebbe conoscibile. Scinde il pensiero e l'essere, che Parmenide aveva unito. La sua argomentazione è questa: se immagino carri che corrono sul mare, ciò non implica che simili carri esistano. In questo modo intende dire che non c'è un legame stretto tra pensiero e essere: posso pensare una cosa che non esiste, posso pensare Pegaso, il cavallo alato, posso pensare la chimera, posso pensare i carri che corrono sul mare, cose che non sono: non c’è quindi una perfetta corrispondenza tra pensiero e essere. Oltre ad usare questo esempio fa anche un ragionamento un po’ più sottile: se c’è un'equazione tra essere e pensiero, si dovrebbe dire simmetricamente: se ciò che è, è pensabile, allora ciò che non è non è pensabile; è e pensabile devono corrispondere simmetricamente, se questo è vero, deve essere vero che non è è uguale a non pensabile. Ma lo schema in cui è = pensabile crolla, perché la chimera, Pegaso il cavallo alato, ecc. li posso ben pensare mentre, essendo non esistenti, dovrebbero essere anche non pensabili; invece essi sono non esistenti, ma pensabili, allora, se non è vera la seconda proposizione che era simmetrica alla prima, non è vera neppure la prima, cioè che ciò che è è pensabile: tra essere e pensiero si crea una frattura e quindi la realtà non è conoscibile. L'argomentazione centrale è che tra essere e pensiero c’è separazione: se posso pensare cose che non esistono questo vuol dire che non c’è corrispondenza fra pensiero e essere. Ripetiamo, per Gorgia se voglio sostenere che ciò che è è anche pensabile devo pure sostenere che ciò che non è non è pensabile.
Più semplice l’argomentazione per cui seppure l'essere esistesse e fosse conosciuto non sarebbe comunicabile. Gorgia rileva che tra le parole e le cose c'è una scissione: in sostanza quando pronuncio la parola ‘bicchiere’ sto usando un flatus vocis, sto ricorrendo a un suono, che in un'altra lingua corrisponde a un altro suono. Quando uso la parola ‘bicchiere’ — ancora più quando comunico per esempio un sentimento — non c’è identità tra i flatus vocis, il suono, il segno grafico che segnala la cosa e la cosa stessa: una cosa è la parola e un’altra cosa è l'oggetto, la cosa stessa. Oltre alla frattura tra pensiero ed essere c'è frattura tra parola e cosa.
Se non c’è identità tra parola e cosa, non si può comunicare, si cade nel solipsismo, nella chiusura dell'io in se stesso: cade l’intersoggettività. Se non c'è comunicazione, non c'è possibilità di comunicare, non c'è socialità, e al sociale si sostituisce ovviamente l’individuale. Il percorso sofistico è completo.
Gorgia stesso era animato dalle migliori intenzioni e sosteneva che la parola può essere usata a fin di bene, ma tra poco vedremo che Platone invece dimostra che tutto questo porta a una situazione catastrofica
Gorgia illustra la potenza della parola nell’Elogio di Elena. Elena, di solito, in tutta la tradizione, era condannata come colei che aveva causato la guerra di Troia, era stata portatrice di innumerevoli mali. Gorgia si diverte invece a dimostrare esattamente l'opposto di quanto veniva comunemente creduto: «Esporrò ora le cause per le quali era naturale che Elena partisse per Troia. Ella fece quello che fece o per volontà di fortuna o per ordine degli dei o per decreto della Necessità, oppure rapita con violenza, o persuasa dalle parole». Si ingegna a mettere in campo una serie di ipotesi che discolpano Elena: se è stata persuasa è ancor meno colpevole che se fosse stata costretta con la violenza o dai fati, perché la parola ha una potenza enorme: «Se, invece, fu la parola a persuaderla e ad ingannare l'animo suo, neppure questo è difficile a difendersi, sciogliendo l'accusa nel modo che segue: gran dominatore è la parola, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo riesce a compiere divinissime cose. Essa è, difatti, capace di calmare la paura, di allontanare il dolore, d’infondere gioia, di accrescere la pietà. E ora spiegherò come questo avvenga. Ciò deve essere dimostrato anche all'opinione degli ascoltatori. Tra la potenza della parola e la condizione dell'anima c’è lo stesso rapporto che c’è fra ciò che prescrivono i farmaci e la natura dei corpi. Come alcuni farmaci eliminano dal corpo alcuni umori, certi altri farmaci altri umori, e alcuni troncano le malattie, altri la vita, così alcune parole addolorano, altre dilettano, altre impauriscono, altre ispirano coraggio in chi ascolta, altre infine avvelenano e ammaliano l’anima con una qualche malefica persuasione. E così abbiamo dimostrato che se ella fu persuasa dalla parola, non commise alcuna colpa, ma fu solo sfortunata». È il famoso elogio della potenza della parola, della potenza della persuasione contro la verità.