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volume_1:ellenistica:filosofia_ellenistica_-_stoicismo_epicureismo_e_scetticismo

Alessandro Magno e l’ellenismo

Alessandro Magno, figlio di Filippo il Macedone, aveva conquistato fra il 334 e il 327 a.C.tutte le regioni appartenenti all’Impero persiano.

«Alessandro era stato educato da Aristotele - dice Hegel - dal pensatore più profondo e anche più influente dell’antichità; l’educazione fu degna dell’uomo che se l’era assunta. Aristotele lasciò questa grande natura alla sua spontaneità, ma v’impresse la profonda coscienza di che cosa sia la verità […], Così formato Alessandro si mise alla testa degli Elleni, per tradurre la Grecia in Asia […]. In questa lotta egli ricambiò all’Oriente il male che la Grecia aveva sperimentato da quella parte, ma restituì anche il bene portato dall’Oriente alla cultura nei suoi inizi, diffuse per l’Oriente la cultura fattasi matura ed elevata, imprimendo nell’Asia da lui occupata i contorni, per così dire, di un paese ellenico».

Con la morte prematura, a poco più di trent’anni, di Alessandro Magno nel 323, seguita l’anno successivo da quella del suo maestro Aristotele, si considera chiuso il periodo classico della filosofia greca e aperto il periodo ellenistico (dal verbo ellenizo, che vuol dire “parlo greco”), caratterizzato dall’espansione della civiltà greca al di là dell’ambito della Grecia in senso strettamente geografico.

Nei regni ellenistici, nei regni cioè che nascono dalla disgregazione dell’Impero macedone, e nella Grecia stessa si impongono sistemi autoritari di governo che portano alla scomparsa della dimensione politica nella vita sociale; i cittadini sono ridotti a sudditi, esclusi dalla sfera delle decisioni politiche. Non esiste più vita pubblica; si verifica un generale ripiegamento - teorizzato anche dai filosofi - nella vita individuale e nell’interiorità. Gli individui non si sentono più legati alla polis, alla comunità, ma si sentono cittadini del mondo (cosmopolitismo). La nuova patria è il mondo, ma il mondo è troppo vasto e su di esso non è possibile un’azione efficace. Alla partecipazione attiva alla vita della polis subentra l’indifferenza: “vivi nascosto”, il consiglio di stare lontani dalla vita pubblica è ripetuto dagli stoici, rappresentanti dello spirito filosofico di quest’epoca.

Sia pure con connotazioni diverse, nelle filosofie ellenistiche l’interesse supremo dell’individuo è se medesimo. Quella che conta è solo la libertà interiore dell’individuo. Dice Hegel:«scopo condiviso di questa filosofia è appunto la libertà dello spirito, l’impassibilità, l’adiaphoria, l’atarassia, l’indifferenza, l’imperturbabilità, l’indipendenza, la perfetta salvezza dello spirito svincolato da tutto e non soggetto a nessuna passione. Il risultato è sempre l’imperturbabilità».

LO STOICISMO

«Gli stoici - afferma ancora Hegel - hanno anche avuto modo di proporre l’ideale del saggio, ossia il volere del soggetto che vuole solo se stesso e la sua libertà. Che è disposto a rinunciare a tutto il resto e che, se anche percepisce dolore esterno ed infelicità, tuttavia li tiene separati dall’interiorità della sua coscienza. Il saggio non cede al timore ed alla cupidità […]. Gli stoici affermano che il saggio è un re; egli non è soggetto alla legge e segue solo la ragione; egli è sciolto rispetto a tutte le leggi particolari».

Delle tre filosofie che caratterizzano l’età illuministica - stoicismo, epicureismo, scetticismo - lo stoicismo è quella storicamente più importante, nel senso che è stata coltivata dal 300 a.C. al 300 d.C. all’incirca e ha esercitato profonda influenza nell’ultimo periodo del pensiero greco, a Roma, nel pensiero medievale e anche arabo, nel Rinascimento. Anche il modo di dire che spesso oggi adoperiamo:«prendiamola con filosofia» risale all’insegnamento stoico di non darsi pena per le vicende esteriori, per le avversità della vita. Lo stesso termine “stoico”, che trae origine dal fatto che la scuola si teneva sotto il portico dipinto (stoà pecile) di Atene, è passato nel linguaggio ordinario a segnalare un atteggiamento di sereno distacco nei confronti della vita, anche nelle sue manifestazioni più sgradevoli come per esempio nell’espressione «sopportare stoicamente il dolore».

Questo carattere di suggerimento di uno stile di vita è comune alle tre filosofie ellenistiche fino ai nostri giorni: “vivere da epicureo” significa indulgere al piacere, “essere scettico” implica il non credere in niente, il dubitare di tutto, e segnala che esse - pur essendo ripartite in logica, fisica ed etica - hanno come scopo supremo, quello di indicare la via per un’esistenza gradevole o almeno sopportabile: «Nel periodo ellenistico - scrive Pierre Aubenque - nasce il concetto popolare della filosofia come una certa arte, difficile ma in linea di principio aperta a tutti, di vivere felici anche in circostanze contrarie».

Fondatore della scuola, in Atene, nel 300 a.C., fu Zenone (da non confondere col discepolo di Parmenide) che proveniva da Cizio, nell’isola di Cipro. Suoi successori nella direzione della scuola furono Cleante e Crisippo. A questo periodo iniziale fa seguito nel II e I secolo a.C. la Media Stoa, lo “stoicismo di mezzo”, di cui furono personalità di spicco Panezio di Rodi e Posidonio d’Apamea, che concorsero a trapiantare lo stoicismo a Roma. Alla morte di Posidonio, maestro di Cicerone, nel 51 a.C. si può considerare che lo stoicismo era entrato ormai a far parte del mondo romano. Dal periodo romano gli esponenti maggiori dello stoicismo, ormai visto soprattutto sotto forma di meditazione morale, furono il tragediografo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.), lo schiavo liberato Epitteto (50-130 d.C.) e l’imperatore Marco Aurelio (121-180 d.C.).

Gli stoici, come d’altra parte gli epicurei, sono materialisti, per entrambe le scuole dunque base della conoscenza è la sensazione. Noi possiamo però - rileva Zenone - dare o negare il nostro assenso a quanto ci offre la sensazione, e l’assenso proviene dalla ragione, dal lògos che vive dentro di noi.

Il fulcro della conoscenza non è costituito dunque dall’immediatezza dell’esperienza sensibile: noi ci costruiamo concetti generali, nozioni comuni, che diventano prolessi, anticipazioni della futura esperienza. La conoscenza procede oltre le sensazioni di oggetti singoli e di dati frammentari e tende a cogliere il lògos universale, la realtà come un tutto unico intrinsecamente connesso, ed è la logica - concepita per la prima volta come una scienza e non solo come uno strumento, un metodo, al modo di Aristotele - che ci mostra le connessioni necessarie tra i fenomeni.

La fisica stoica

Riprendendo la visione ilozoistica1) dei primi filosofi della Ionia, gli stoici vedono l’universo come un grande organismo, in cui le parti si trovano in corrispondenza fra loro e in sintonia con il tutto: vive nel cosmo una simpatia universale.

La concezione stoica del mondo è monistica e dinamica: l’universo è un unico organismo vivente, scaturito da un Fuoco artefice e, compiuto il suo ciclo, tornerà al fuoco da cui sì è originato. Una conflagrazione universale (ecpùrosis) farà tornare il mondo alla sua origine e tutte le cose torneranno a confondersi nell’unità della loro fonte originaria. A questa convergenza seguirà una nuova nascita e si ripeteranno, identici, tutti gli eventi del ciclo precedente.

Il mondo ripercorre periodicamente, punto per punto, evento per evento, tutto il proprio passato. È questa la teoria dell’eterno ritorno. Secondo una testimonianza di Alessandro d’Afrodisia: «gli stoici sostengono che dopo la conflagrazione tutte le cose saranno di nuovo individualmente identiche nel mondo, sicché anche ciò che ha una qualità individuale nascerà di nuovo identico, nel nuovo mondo, a quello che era nel mondo precedente».

Con ancora maggiore chiarezza la dottrina stoica dell’eterno ritorno viene così semplificata da Nemesio: «Poiché gli astri percorreranno di nuove le stesse traiettorie, si realizzerà immutabilmente ogni cosa che c’era già stata nel precedente periodo. Ci saranno di nuovo Socrate e Platone e ciascuno dei loro contemporanei, amici e concittadini».

Gli stoici sono deterministi2): tutti gli eventi del cosmo si succedono secondo un’assoluta necessità. Dappertutto vive un lògos - come ha sostenuto Eraclito, col quale lo stoicismo presenta più di un punto di contatto - in ogni cosa domina assoluta una medesima legge che non si può eludere.

La morale e le leggi

Cicerone, profondamente influenzato dallo stoicismo, nel De legibus esplicita con chiarezza questa dottrina e mostra il suo collegamento con la morale stoica, che suggerisce una serena accettazione della legge sia nel suo aspetto naturale, sia nel suo aspetto umano: «La legge non è né un’invenzione dell’ingegno umano né l’ordinamento di popoli, ma un qualcosa di eterno, in grado di reggere tutto l’universo con la sapienza del comando. Perciò dicevano che la legge più importante e ultima è la mente della divinità che tutte le cose costringe o vieta secondo ragione: da ciò deriva che la legge che gli dei diedero al genere umano è giustamente lodata […]».

C’è un lògos che pervade tutti gli aspetti della realtà: è presente nella natura, come legge fisica, ma è anche fato, destino e, siccome esso tende all’ordine e al bene, è anche pronoia (provvidenza). L’istinto originario dell’uomo non è rivolto verso il piacere (come sostengono gli epicurei), ma verso la conservazione e lo sviluppo della propria essenza, cioè del lògos: >la vita virtuosa è quella conforme a natura, cioè conforme al lògos, sia a quello che compete propriamente alla natura dell’uomo, sia a quello imperante nell’universo.

«Soltanto la moralità è un bene»: questo è il nocciolo dell’etica di Zenone. Salute, forza, bellezza, denaro, hanno un valore relativo, ma non sono veri beni, perché riguardano la nostra natura animale, ma non l’uomo nella sua natura più profonda, interiore.

L’etica, con la centralità della figura del saggio e l’accettazione del destino, diventa il cuore dello stoicismo a Roma: per Seneca la filosofia ha uno scopo decisamente pratico, essa ci insegna a mantenere la dignità di fronte alla sventura e a sopportare il caso; per Epitteto è inutile affannarsi dietro a ciò che non dipende da noi; Marco Aurelio esalta l’interiorità e l’accettazione della realtà: «Nessuno è più misero di chi scruta le cose che gli stanno intorno e cerca dai segni esterni ciò che accade nell’anima della gente, senza accorgersi che basta badare solo alla propria interiorità e curarla sinceramente […] Tutto ciò che a te conviene, a me conviene, o mondo; tutto ciò che le tue stagioni portano, o natura, è frutto per me. Tutto deriva da te, tutto è in te, tutto ritorna in te».

La logica stoica

Gli Stoici svilupparono una teoria della logica differente da quella di Aristotele. La logica stoica ha avuto una grande influenza sul pensiero occidentale.

Gli Stoici consideravano la logica come un mezzo per giungere alla verità e, di conseguenza, alla saggezza. La logica era strettamente collegata all’etica e alla fisica. Essi credevano che ragionare correttamente fosse essenziale per vivere in armonia con la natura e per sviluppare la virtù. Per loro, una vita virtuosa era una vita basata su ragionamenti corretti, che si fondano su una comprensione logica e chiara della realtà.

Logica proposizionale: innovazione rispetto ad Aristotele

Uno dei contributi più significativi della logica stoica è il passaggio dalla logica dei termini di Aristotele (che si basava sulle relazioni tra soggetti e predicati) alla logica proposizionale. La logica stoica si concentra sulle relazioni tra proposizioni (affermazioni che possono essere vere o false) e sviluppa strumenti per analizzare inferenze basate su queste proposizioni. Questa innovazione ha avuto un impatto significativo nel pensiero logico successivo, soprattutto nella logica moderna.

Ad esempio, gli Stoici introdussero la nozione di condizionale (del tipo “Se… allora…”), e distinsero tra condizionali veri e condizionali falsi. Crisippo, uno dei maggiori logici stoici, sviluppò una complessa teoria delle inferenze, stabilendo regole precise per il ragionamento proposizionale.

La logica come strumento per distinguere il vero dal falso

Per gli Stoici, la logica non era solo un esercizio astratto, ma uno strumento pratico per distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Questo è cruciale perché, per loro, vivere bene significa vivere secondo verità e ragione. Attraverso il corretto uso della logica, l’individuo può evitare le false credenze (che portano a emozioni negative e irrazionali) e abbracciare credenze vere, che conducono a uno stato di tranquillità e virtù.

Determinismo e logica: visione dell’universo

La logica stoica era anche legata alla concezione deterministica dell’universo. Gli Stoici credevano infatti che l’universo fosse governato da una ragione divina (il Logos), che permea tutte le cose. La comprensione logica della realtà era, quindi, un modo per comprendere le leggi che governano l’universo. Secondo loro, ogni evento è il risultato di una catena causale logica, e capire questa catena è essenziale per accettare il proprio destino e vivere serenamente.

Logica e linguaggio: teoria della significazione

Gli Stoici elaborarono una teoria linguistica innovativa, sostenendo l’assenza di una connessione diretta tra parole e oggetti reali. La loro analisi identificava tre componenti nel processo comunicativo:

  • Il significante è il suono o il segno fisico (es. scritta) che utilizziamo per esprimere un concetto. Per esempio, quando diciamo la parola “albero”, il suono che produciamo è il significante.
  • Il significato è il contenuto mentale, l’idea o il concetto a cui il significante si riferisce. Nel nostro esempio, il concetto mentale di un “albero” è il significato.
  • La cosa significata è l’entità concreta a cui il significato si riferisce nel mondo reale. L’albero fisico che vediamo nella realtà è ciò che viene significato.

Di questi, solo significante e cosa significata sono entità fisiche. Il significato è visto come qualcosa di immateriale, un’entità astratta che esiste solo nella mente di chi ascolta o parla. La conclusione a cui arrivano gli Stoici è che per la comunicazione linguistica sono sufficienti solo due elementi: il suono/segno e il suo significato. Il collegamento con un oggetto reale è possibile ma non indispensabile, come dimostrano termini quali “unicorno” o “centauro”. Il linguaggio media tra il mondo mentale (concetti) e il mondo fisico (oggetti reali).

La logica stoica rappresenta un’evoluzione rispetto alla logica aristotelica. Mentre Aristotele si concentrava su proposizioni che descrivevano la realtà effettiva (proposizioni apofantiche), gli Stoici svilupparono una logica ipotetica basata su implicazioni necessarie, indipendentemente dalla corrispondenza con la realtà fisica.

La logica stoica ha influenzato profondamente il pensiero logico successivo, in particolare durante il Medioevo, quando i filosofi scolastici ripresero alcune idee della logica proposizionale stoica. Inoltre, molte delle idee sviluppate dagli Stoici sono alla base della logica simbolica moderna, che si è sviluppata nel XIX e XX secolo.

L’EPICUREISMO

Hegel afferma che nel pensiero ellenistico al principio dell’universalità, del lògos, affermato dagli stoici si contrappone quello della singolarità, della sensazione, sostenuto dagli epicurei e aggiunge: «Ci siamo imbattuti in questi principi discorrendo dei cinici e dei cirenaici». Alla fuga del mondo, al vivere appartato di Diogene corrisponde la ricerca della solitudine e dell’indifferenza degli stoici; all’egocentrismo e alla ricerca del piacere di Aristippo corrisponde l’edonismo di Epicuro.

Epicuro, nato a Samo, nel 306 a.C.fondò ad Atene una scuola in un edificio con annesso un giardino, dove si svolgevano gli incontri fra maestri e discepoli e per questo la scuola epicurea fu chiamata “giardino” (képos) e “filosofi del giardino” i suoi seguaci. Anche Epicuro seguì la tripartizione della filosofia in logica, fisica ed etica, ma a quest’ultima andava la maggiore attenzione degli epicurei.

La logica di Epicuro

La logica è chiamata da Epicuro canonica, in quanto si occupa dei canoni, cioè dei criteri che ci permettono di distinguere il vero dal falso. I sensi sono la fonte principale delle nostre conoscenze, i sensi ci mettono in contatto con la realtà.

I concetti dell’intelletto sono anticipazioni (prolessi) di future sensazioni basate su esperienze precedenti: l’esperienza sensibile di alberi o di cani che ho avuto mi permette di anticipare le sensazioni che avrò quando mi troverò di fronte a un albero o a un cane fra gli altri oggetti. Nella sensazione è da riporre il criterio della verità: le sensazioni sono frutto dell’impatto di flussi di atomi che scaturiscono dalle cose sui nostri sensi e sono una copia della realtà.

L’errore nasce da giudizi emessi precipitosamente, senza conferma certa dell’esperienza. La teoria della conoscenza di Epicuro è considerata da Hegel decisiva per la nascita di una scienza empirica della natura: «L’effetto suscitato dalla filosofia epicurea nel suo tempo è stato l’opposizione alla superstizione del mondo greco e romano e l’elevazione degli uomini sopra di essa. Tutto l’armamentario di voli d’uccelli, àuguri, auspici, eccetera, che il modo di comportarsi sia determinato considerando le viscere degli animali o se i polli sono tristi o allegri, ebbene a tutte queste superstizioni si contrappone la filosofia epicurea, la quale fa valere come vero solo ciò che corrisponde alla prolessi, ossia ad una conoscenza derivante dalla sensazione».

L’etica epicurea: l’uomo deve ricercare il piacere ma…

L’etica di Epicuro è coerente con la sua visione materialistica della realtà e della conoscenza: il bene consiste nel piacere, il male nel dolore, pertanto l’uomo dovrà tendere a cercare il primo e a fuggire il secondo. Questa è però una visione semplificata della morale di Epicuro, quella che ha portato alla coincidenza di “epicureo” e “gaudente” nel nostro linguaggio, quella che ha portato a identificare l’atteggiamento epicureo nel “carpe diem”, nel consiglio di prendere quello che la giornata offre senza preoccuparsi di altro, come recita il detto di Orazio, esponente di spicco con l’altro poeta Lucrezio, dell’epicureismo romano.

Nella sua forma semplificata, la morale di Epicuro sembra affine o coincidente con quella dei cirenaici formulata da Aristippo, che è invece decisamente rozza rispetto a quella del raffinato Epicuro. Per Aristippo il bene consiste appunto nel cogliere il piacere isolato dell’istante attuale, mentre Epicuro respinge questo “piacere in movimento”, che scaturisce dal passaggio dal desiderio alla sua soddisfazione, e sostiene un “piacere catastematico”, un “piacere stabile”, che nasce dall’equilibrio di anima e corpo, un piacere che è atarassia, calma serena.

«Quando diciamo che il piacere è il fine - afferma Epicuro nell’Epistola a Meneceo - non alludiamo ai piaceri dei dissoluti né a quelli dei gaudenti, come mal intendono alcuni ignoranti e altri che non capiscono, ma al non provare dolore e al non essere turbati nell’anima». La saggezza - continua Epicuro nella medesima lettera - ci insegna che non è possibile vivere piacevolmente senza vivere in modo saggio, bello e giusto e che non è possibile vivere in modo saggio, bello e giusto senza vivere piacevolmente.

Il “**piacere in quiete**”, quale sommo bene per l’uomo, è la libertà da desideri, timori, preoccupazioni, affanni, implica non avere alcun interesse, alcuna paura, non legarsi a nulla che potremmo perdere.

Per mettere in fuga timori e preoccupazioni, la filosofia prescrive un quadrifarmaco, cioè quattro precetti che sono le medicine dell’anima: 1) non avere paura degli dei, che vivono beati negli intermundia, e non si curano delle faccende umane; 2) non avere paura della morte, perché «la morte non è nulla per noi» in quanto tutto il bene e tutto il male sono nella sensazione, ma la morte è una privazione della sensazione (steresis), inoltre, scrive Epicuro: «Perché dovrei avere timore di te, o morte? Finché esistiamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, non ci siamo più noi»; 3) la paura di non raggiungere la felicità: il piacere è facile a raggiungersi ma bisogna ricercare la vera felicità, che deriva dal vivere in modo semplice e coltivando i piaceri naturali e necessari; 4) la paura del dolore: «non dura continuamente il dolore nella carne, ma la sua punta massima dura pochissimo tempo». Epicuro sostiene che la maggior parte dei dolori sono temporanei e, se intensi, sono di breve durata. Inoltre, anche nei casi di dolori cronici, è possibile trovare sollievo attraverso un corretto atteggiamento filosofico.

Il dolore però può nascere non solo da cause naturali, ma anche dai rapporti umani. Il saggio epicureo dovrà perciò “vivere nascosto”, non partecipare alla vita politica, isolarsi. L’amicizia è la sola forma di legame comunitario che l’epicureismo esalta. Per condurre una vita orientata al bene così inteso e così diverso dal piacere immediato, non ci si potrà affidare agli impulsi, ma si dovrà adoperare la ragione, che valuta piaceri e dolori e rimuove le opinioni sbagliate che turbano l’anima e la rendono timorosa e inquieta. «Perciò - sostiene Hegel - il contenuto della filosofia epicurea «il suo insegnamento complessivo, il suo fine, è qualcosa d’elevato e di paragonabile agli scopi della filosofia stoica».

LO SCETTICISMO

Il conseguimento della tranquillità dell’animo e della sicurezza interiore è l’obiettivo comune a stoicismo, epicureismo e scetticismo. Quest’ultimo indirizzo di pensiero, che prende il nome del termine sképsis (dubbio, ricerca), assolutizza il momento del dubbio, sostenendo che nessun criterio di verità è valido, che è impossibile accedere alla verità.

Dal momento che la verità viene considerata inconoscibile, il saggio dovrà adottare la sospensione del giudizio (epoché). Si può dire che un elemento di scetticismo sia presente in ogni filosofia, in quanto la ricerca, l’indagine, implica pur sempre la negazione, la critica di ogni dogma, cioè di ogni verità affermata senza rigorosa dimostrazione.

Ma l’errore dello scetticismo sta nel non procedere oltre, dal negativo al positivo. «Scetticismo significa dialettica - dice Hegel - Il concetto filosofico è appunto la dialettica, infatti la cognizione autentica dell’idea è la negatività, che nello scetticismo è di casa: la differenza sta solo nel fatto che lo scetticismo s’arresta al negativo come ad un risultato. Esso si ferma al risultato come a qualcosa di negativo, tuttavia questo negativo è solo una determinatezza unilaterale rispetto a ciò che è positivo».

La prima scuola scettica fu quella di Pirrone di Elide (365-235 a. C.), ad essa segue lo scetticismo nella Media Accademia (secondo periodo dell’Accademia fondata da Platone) di cui la figura di maggior spicco è quella di Cameade di Cirene (219-129 a.C.). Nel I e II secolo dopo Cristo ci fu poi una ripresa del pirronismo, ad opera soprattutto di Sesto Empirico.

Pirrone partecipò alla spedizione di Alessandro Magno e, secondo alcuni storici della filosofia, fu influenzato dall’incontro con pensatori indiani, ricavandone uno stile di vita indifferente alla verità. La suprema saggezza consiste non solo nell’imperturbabilità (atarassia), ma anche nell’afasia (dal greco: senza parlare). Le cose sono tutte indifferenti, tutto è apparenza, non esiste vero o falso: il saggio non dice nulla, non si pronuncia su questioni di verità. La conseguenza di questa concezione, dice Diogene Laerzio, è che Pirrone «nella pratica della vita nulla evitava e da nulla si guardava, sopportando ogni cosa, come capitava […]».

Hegel riferisce lo scherno dei contemporanei di Pirrone per questo atteggiamento: «Se un cavallo o una vettura si dirigevano verso di lui, egli non deviava il suo cammino. Per mancanza di fede nella verità dei fenomeni sensibili, egli correva fino a sbattere contro i muri. Si capisce come queste storie si propongono di mostrare, per beffarsene, le estreme conseguenze d’un atteggiamento scettico».

Secondo Carneade (personaggio di manzoniana memoria: «Carneade, chi era costui?» era la frase pronunciata da Don Abbondio per far capire la sua ignoranza), mancando ogni certezza, non essendoci alcun criterio solido di verità, ci si deve accontentare del probabile: nella vita pratica siamo continuamente costretti a prendere decisioni, non possiamo fermarci all’epoché, alla sospensione del giudizio e dobbiamo scegliere, fra le varie opinioni, quella che più merita la nostra fiducia (probabilismo).

Nel 156 a.C. Atene inviò al senato romano un’ambasceria composta da Diogene di Seleucia (stoico), Critolao (aristotelico) e da Carneade, che tenne ai giovani romani discorsi per mostrare la possibilità di sostenere tesi contrapposte. Il successo di Carneade fu tale da suscitare la preoccupazione di Catone il vecchio, il quale ottenne che, conclusa l’ambasceria, i tre filosofi greci fossero invitati a lasciare la città al più presto per evitare che seminassero lo scetticismo fra la gioventù romana.

Sesto Empirico, i cui scritti Ipotiposi pirroniane (Lineamenti) e Contro i matematici costituiscono la principale fonte per conoscere il pensiero scettico antico, così sintetizza in maniera esemplare l’essenza dello scetticismo: «Lo scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito alla uguale forza dei fatti e delle reazioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi, all’imperturbabilità».

Ilozoismo

L’ilozoismo è una dottrina filosofica che sostiene che tutta la materia, anche quella non vivente, possiede una forma di vita o energia vitale. In altre parole, secondo questa visione, ogni cosa nell’universo è in qualche modo “viva”.

Determinismo

Il determinismo è la teoria secondo cui tutti gli eventi, incluse le azioni umane, sono già determinati da cause precedenti. In pratica, tutto ciò che accade è il risultato inevitabile di una catena di cause e condizioni, e nulla potrebbe andare diversamente da come è andato.

CREDITI

Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.

1)
Ilozoismo
2)
determinismo
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