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IL NEOPLATONISMO ANTICO: PLOTINO

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Il neoplatonismo: filosofia e religione

Il neoplatonismo riveste un’importanza decisiva nella storia del pensiero occidentale. Quando esso nasce, la filosofia classica greca si è conclusa e si diffondono non solo una nuova filosofia, quella ellenistica, ma anche un nuovo modo di pensare: è nato il cristianesimo, è cambiata l’atmosfera spirituale.

Plotino probabilmente nacque nel 205 d.C. in Egitto. In questo periodo sembrerebbe essersi la carica del pensiero greco: la priorità della ragione, dell’intelletto non sono più i temi che affrontano i filosofi. Sono nate esigenze che si possono definire genericamente religiose: il problema principale non è più quello di capire il mondo, ma quello soteriologico, cioè della salvezza.

Nel II, nel III secolo d.C. lo scenario culturale si è completamente modificato rispetto a quello della Grecia classica, ma anche rispetto a quello della Grecia ellenistica: il problema religioso si è fatto avanti in maniera massiccia e il problema principale diventa quello di come orientare la propria esistenza per la salvezza. In questa atmosfera si accavallano suggestioni di provenienza orientale che contaminano la filosofia greca; cominciano a nascere sette misteriche; si sviluppano tentativi di inglobare lo stesso cristianesimo da parte di una dottrina abbastanza oscura, lo gnosticismo. Si creano situazioni di confusione, di contaminazione fra filosofia e religione, anzi, secondo alcuni storici della filosofia, nel II-III secolo si sviluppa una vera e propria lotta che poi finirà con la prevalenza del cristianesimo, ma lo gnosticismo, le sette orientali, lo stesso neoplatonismo prima di soccombere si battono per cercare di dare una guida, di dare uno sbocco a esigenze di salvezza che nascono in un mondo in cui l’Impero romano è in decadenza, non ci sono punti di riferimento esteriori, pubblici, politici, e l’uomo si ripiega su se stesso, alla scoperta della propria interiorità.

Plotino riprende il pensiero di Pitagora e di Platone

Plotino riesce a tenere presenti queste esigenze di stampo religioso, ma senza far venire meno lo spirito greco di chiarezza intellettuale. E’ stato detto che Plotino è l’ultimo frutto della mentalità greca in quanto riesce a trovare una soluzione in cui gli aspetti nuovi, misteriosi, insondabili, della realtà vengono rispettati, l’elemento religioso, soteriologico viene rispettato, ma viene rispettata anche l’esigenza razionale che il pensiero greco classico aveva messo al centro.

E’ un grande filosofo di una età crepuscolare, che riesce a conciliare il nuovo col vecchio, le nuove istanze di tipo religioso con le vecchie istanze di tipo razionale. Plotino riesce a compiere questa operazione proprio per il fatto che utilizza i maggiori frutti del pensiero greco, Parmenide, Pitagora, Platone ed Aristotele, anche se il centro del suo recupero è il pensiero di Platone: la sua filosofia è definita neoplatonismo.

Il concetto fondamentale intorno a cui ruota la sua filosofia è quello che abbiamo visto nei presocratici: il mondo sembra dispersivo, costituito di tante entità, di tanti individui, di tanti eventi che ce lo fanno apparire come molteplice, come dominato dalla pluralità, a volte anche come caotico: ci troviamo sempre di fronte a cose individuali, separate le une dalle altre. Plotino riprende il concetto di Parmenide per cui dietro l’apparente pluralità c’è una unità sostanziale.

Soprattutto riprende Pitagora, un personaggio che, proprio per la sua natura di fondatore di una scuola di tipo religioso, iniziatico ebbe grande fortuna nei primi secoli dell’era cristiana. Il fatto di aver fondato una scuola di tipo religioso si prestava bene ad essere utilizzato in questa nuova sintesi.

Pitagora aveva sostenuto che le cose nella loro diversità, molteplicità, pluralità si possono considerare ognuna come un numero, la pluralità si può ridurre da un punto di vista logico all’insieme dei numeri, esistono tante cose, viviamo nel mondo della molteplicità; traducendo la molteplicità in termini essenziali, in termini logici, questo vuol dire che ci sono tanti numeri. Pitagora aveva rilevato che se esistono tanti numeri, anzi infiniti numeri, è pur vero che ogni numero si può considerare come l’unità sommata a se stessa tante volte; un qualsiasi numero, 365, per esempio, corrisponde all’unità sommata a se stessa 365 volte, quindi l’uno è presente in tutti i numeri.

Dal momento che ai numeri corrispondono le cose, in quanto ad ogni numero corrisponde un punto, un granello di realtà, e che tutti i numeri comprendono l’uno, tutte le cose comprendono l’uno, l’uno è la matrice di tutte le cose. Questo è l’aspetto che viene ripreso da Plotino: ogni cosa è un numero, ma ogni numero è uno anche nel senso che è assolutamente non confondibile con gli altri numeri: se considero il numero 365, esso non è confondibile con quelli che lo precedono e quelli che lo seguono.

Ogni cosa è un numero, ma è un numero distinto dagli altri, quindi è un’unità in se stessa, ogni cosa è profondamente animata da una identità, è unitaria, è una. Dietro l’apparente molteplicità tutte le cose partecipano dell’uno e tutte le cose sono identificate in loro stesse. Qualunque cosa anche fatta apparentemente di molti pezzi, come un tavolo o un organismo umano, presenta un elemento unificatore per cui lo chiamiamo “tavolo” oppure lo chiamiamo “uomo”.

Recuperato questo aspetto di Pitagora c’è il contributo decisivo di Platone, che aveva fatto uno sforzo di unificazione più ampio: rispetto alla molteplicità degli uomini che esistono, delle piante che esistono, delle azioni giuste che facciamo, ci sono idee che sono l’unificazione di tutti questi campi della realtà, c’è un’idea di bellezza che è il modello e quindi è l’unità di tutte le cose belle, c’è un’idea di giustizia che è l’unità di tutte le azioni giuste, un’idea di cavallinità che è l’unità di tutti i cavalli: l’elemento di unificazione per Platone era l’idea.

Platone si era posto il problema della unificazione della realtà e dell’unificazione delle stesse idee, perché le idee sono tante: giustizia, bellezza, cavallinità ecc. ma bisogna ipotizzare che sono forme unificanti e al di là della molteplicità delle idee ci deve essere qualche cosa di unitario. Per dirla nella maniera più semplice possibile, questo qualche cosa di unitario che dà unità alle stesse idee è l’idea del bene. Questa visione è presente nel mito della caverna dove c’è la visione finale del prigioniero, che, uscito dalla caverna, guarda il Sole. Il Sole corrisponde all’idea del bene, l’idea del bene è l’idea delle idee, è l’idea che unifica le idee, che unificano a loro volta la molteplicità corporea materiale.

Tutte le idee sono unificate dal bene, in quanto ogni idea è la perfezione - il bene - di un determinato ambito di realtà: l’idea del cavallo è la perfezione dell’equinità, della cavallinità; l’idea di giustizia è la perfezione della giustizia; l’idea di bellezza è la perfezione della bellezza.

Oltre Platone verso l’unità assoluta

In Platone c’era quindi stata l’idea del sommo bene che è un principio di unificazione delle idee. Plotino dice che su questa strada bisogna fare un passo ancora in avanti: questa è la sua novità. Il concetto platonico del Sole, del sommo bene, come unificazione di tutte le idee è un concetto di unità ancora manchevole di qualche cosa, in quanto è appunto unità di una molteplicità: Platone vede infatti l’uno come unità della molteplicità, ma si tratta di un concetto di “uno” debole, manchevole, in quanto usa la parola “uno” nello stesso senso in cui si può dire che c’è una classe di alunni, nel senso che ci sono tanti alunni con un professore, una struttura in cui vengono unificati enti molteplici in un concetto unico.

Dire che il sommo bene, il Sole, è l’unità delle idee significa dire che è l’unità del molteplice, quindi se è l’unità del molteplice è ancora composta di parti, non è ancora la pietra fondamentale, il fondamento ultimo della realtà, in quanto è ancora qualche cosa che si può scindere. Il sommo bene di Platone è un’unione di più cose, ma un’unione di più cose è un composto, e un composto non può essere qualche cosa di originario perché consta di più pezzi messi assieme.

Secondo Plotino bisogna trovare un fondamento, che per essere tale deve essere semplice, in quanto se è composto non è originario, non è vero fondamento. Bisogna arrivare a un’idea di uno assolutamente semplice: non l’uno come unità del molteplice, ma l’Uno in se stesso, l’Uno di per sé.

L’estasi e la teologia negativa

Se la realtà non può non partire dall’Uno, però l’Uno presenta un problema: l’Uno è qualche cosa di ineffabile, cioè è qualche cosa di cui non si può parlare; mentre abbiamo fatto un discorso, un ragionamento logico per arrivare all’Uno, ora che siamo arrivati all’Uno (perciò entra in scena l’elemento religioso) dell’Uno non possiamo dire niente.

L’Uno è ineffabile, dell’Uno non si può predicare niente, non lo si può prendere come soggetto di una frase e aggiungergli un predicato; non posso dire: “l’Uno è …”, addirittura, dice Plotino, non posso neppure dire a rigor di logica che l’Uno è bene, oppure non si può dire che l’Uno è perfetto, perché a questo punto lo si fa diventare due cose, lo si fa diventare l’Uno più la perfezione, l’Uno più il bene. Qualunque cosa si predichi dell’Uno lo fa diventare due, quindi l’Uno è qualche cosa che sta al di là di ogni predicazione possibile: dell’Uno non si può dire niente, l’Uno è ineffabile.

Ma se l’Uno è ineffabile, per raggiungere l’Uno sarà necessaria una esperienza mistica. Se mi metto di fronte all’Uno e pretendo di conoscerlo, già lo sto contraddicendo, quindi non lo posso comprendere, in quanto ci sono io come soggetto e poi mi metto l’Uno di fronte come oggetto, e così sono già ritornato all’interno della duplicità. Pertanto l’Uno non lo potrò conoscere e non lo potrò descrivere. L’unica possibilità per attingere l’Uno sarà quella di immergermi nell’Uno, cioè di uscire fuori di me stesso e di diventare una cosa con l’Uno, cioè l’esperienza estatica (da ex sto), l’esperienza per cui si sta fuori di se stessi e ci si immerge nell’unità, nella divinità, nella totalità. Questa esperienza non può essere comunicata, in quanto, quando mi risveglio, come dice Plotino, da questa esperienza e mi metto a parlare, sono ricaduto nel mondo della molteplicità: se uso una serie di parole per cercare di spiegare di che si tratta inevitabilmente la sto snaturando.

Porfirio, il discepolo di Plotino che ha scritto la Vita di Plotino e che ha raccolto in nove libri la sua opera, racconta che Plotino per quattro volte ha avuto una esperienza estatica, ma non ha potuto dopo nessuna di queste quattro volte dire in che è consistita questa esperienza. Plotino viene considerato come il precursore di quella che verrà chiamata la teologia negativa: se l’Uno vogliamo vederlo come il principio primo, vogliamo chiamarlo Dio, di questo Dio inteso in questo modo non si può dire niente, non si può dire in positivo “è bene, è giustizia, è onnipotenza”, si potrà dire solo quello che non è, ma non si potrà dire quello che è. Per Plotino si può dire di Dio soprattutto che Dio non è molteplicità, ma che cos’è in positivo non si può dire; si può dire che non è molteplicità, che Dio non è male, di conseguenza se ne può fare un discorso solo in negativo: teologia negativa.

Il molteplice come emanazione dell’Uno

A questo punto sorge un problema, che Plotino stesso si pone: se l’Uno è l’assoluta semplicità e se ne sta in una sorta di beatitudine, di pienezza di sé, perché sussiste tutta la complicazione della pluralità del mondo? Plotino dà una risposta molto singolare, più per immagini che per ragionamenti: l’Uno è assolutamente semplice, appunto è unità, e dà luogo alla molteplicità per sovrabbondanza. L’Uno è l’estrema ricchezza dell’essere che sparge intorno a sé una influenza della sua perfezione e quindi dà luogo progressivamente ad una emanazione che però, essendo un distacco dall’Uno, è una nascita della molteplicità; quello che non è uno è molteplice.

Plotino si esprime attraverso metafore: l’Uno è simile a una fonte luminosa come il Sole; il Sole per sua natura emana raggi che vanno sempre più digradando verso le tenebre. È come se l’Uno avesse una tale ricchezza di energia che fuoriesce da se stesso, trabocca e dà luogo al mondo; l’Uno è come un fiore, il fiore ha una sua natura, è bello in se stesso, sparge profumo intorno a sé non perché lo voglia, ma automaticamente: è come se la sua stessa essenza si irradiasse intorno a sé.

Plotino ricorre anche all’immagine di una fonte di calore, una fiamma, che diffonde calore intorno a sé. Queste metafore (il Sole, il fiore, la fiamma) implicano che non c’è una volontà da parte dell’Uno di dare luogo alla molteplicità, al mondo; per necessità, per la sua stessa natura, l’Uno ha un effetto fuori di sé, questo effetto all’esterno di sé, essendo esterno a sé cioè all’Uno, dà luogo a qualche cosa che non è l’Uno stesso, che è la molteplicità.

C’è un processo di emanazione diverso dal creazionismo cristiano: dal punto di vista cristiano, c’è un Dio che ha una volontà di creare e crea il mondo per fini imperscrutabili che la teologia cerca di spiegare, c’è l’atto di volontà della creazione; in Plotino invece c’è l’emanazione, che implica un atto necessario: l’Uno non sceglie, non vuole creare il mondo, ma dà luogo al mondo per una sorta di sovrabbondanza di sé stesso. Manca il concetto di volontà.

Tra l’altro, dice Plotino, l’Uno non può volere niente, perché se volesse qualche cosa si porrebbe un fine fuori di sé e quindi si sdoppierebbe, non sarebbe veramente uno: l’Uno può solo emanare, perché l’Uno può solo essere. La volontà implica la scissione interna tra quello che si è e quello che si vuole, invece l’Uno è semplicemente: non vuole niente. In questo Plotino è greco, esprime l’intellettualismo greco, respinge il concetto di volontà, che si afferma solo con il cristianesimo.

Queste intuizioni di Plotino hanno un risvolto morale: noi agiamo continuamente pensando di doverci proporre dei fini, siamo continuamente rivolti all’esterno, a perseguire le nostre finalità mettendo in moto la nostra volontà. Tutto questo secondo Plotino è sbagliato in quanto implica esteriorità, implica una scissione in noi stessi per cui ci prefiggiamo di fare domani una certa cosa, di arrivare dopodomani a un altro traguardo, quindi neghiamo la nostra stessa essenza proiettandoci continuamente all’esterno dividendoci continuamente. Per Plotino invece quello che conta è essere. L’intuizione di Plotino è che bisogna vivere come i fiori, che non si prefiggono di essere belli, non si prefiggono di spargere la loro presenza, il profumo intorno a sé, o di spargere il polline, ma semplicemente sono e per il fatto di essere esercitano anche una certa influenza sul mondo che sta loro intorno.

Per Plotino bisogna volgersi al proprio interno: “Tutto è interiore”, non bisogna volere in continuazione perseguire obiettivi esterni. Se ci si rivolge all’interno e si rafforza la propria consapevolezza, si espande la propria personalità, che crea anche influenze all’esterno come risultato automatico; se invece ci prefiggiamo di fare o di essere altro da quello che siamo, di produrre o raggiungere fatti esteriori, non ci riusciremo e creeremo soltanto una spaccatura in noi stessi. E’ importante seguire la nostra interiorità, fare quello che si sente come portato della propria personalità, della propria natura. Si può esercitare influenza nel mondo solo in base a quello che si è.

L’intelletto

L’Uno genera l’intera realtà solo perché è ricchezza di essere; questa ricchezza sovrabbonda come quella della luce del Sole, come se non si riuscisse a contenere in una sfera limitata e appunto si espande. Questa espansione prima di tutto dà luogo alla dualità. C’è una prima derivazione dell’emanazione che è l’intelletto. Plotino vede l’origine di tutto nell’Uno, all’Uno segue l’intelletto. Perché proprio l’intelletto? Perché l’intelletto è dualità, è il simbolo del numero due, in quanto l’intelletto implica la scissione tra il soggetto che pensa e l’oggetto che viene pensato e questo è anche il motivo per cui l’intelletto non può raggiungere l’Uno, perché esso ha sempre la tendenza a porre un oggetto pensato di fronte a sé che è pensante.

L’intelletto è all’interno del dualismo e non può cogliere mai l’Uno, ma è la prima derivazione che viene fuori dall’Uno, è la trama delle idee, l’insieme delle idee che stanno alla base del mondo. Con l’intelletto siamo arrivati a Platone. L’intelletto non sarebbe altro che l’insieme delle idee platoniche pensate dall’intelletto di Aristotele, è una teoria che compendia Platone e Aristotele. Quindi sono le idee platoniche, modelli delle cose, che però invece di essere in un iperuranio fantastico sono i pensieri di un intelletto con la I maiuscola, il pensiero di pensiero di Aristotele. L’intelletto equivale perciò al mondo delle idee platoniche unificate in un intelletto divino, Questa è solo la seconda figura o, come dice Plotino, la seconda ipostasi. La prima ipostasi, cioè la prima sostanza, è l’Uno.

C’è l’Uno, poi c’è l’intelletto e dall’intelletto viene fuori un’ulteriore ipostasi: l’anima del mondo. Le idee-modello che sono nell’intelletto si traducono nelle cose concrete, vanno ad animare la materia, a dare forma alla materia. La materia è l’estrema propaggine dell’Uno. La materia la conosciamo solo in quanto è animata da una forma; la materia completamente priva di forma è una astrazione, è il punto massimo di lontananza dall’Uno, è come, nel paragone del Sole, il luogo dove il Sole finisce col digradare nelle tenebre.

Plotino sostiene che la materia non ha una consistenza propria, autonoma. La materia non è altro che il luogo di lontananza dall’Uno in cui l’Uno, arrivato all’estremo della sua emanazione, non riesce a fare risplendere la luce neppure debolmente, ma essa non ha una sua consistenza in positivo. Se si dicesse che la materia ha una sua consistenza autonoma i principi della realtà sarebbero due e si cadrebbe nel manicheismo, cioè nell’ipotesi assurda che ci sono due principi originari, luce e tenebre, bene e male, che si fanno lotta fra di loro. Invece per Piotino c’è solo l’Uno che è bene, e il male non è altro che apparenza, non è altro che la lontananza dall’Uno.

Quindi dalla sovrabbondanza dell’emanazione nasce qualche cosa che partecipa dell’Uno, ma non è l’Uno, si allontana progressivamente dall’Uno: non può essere il primo perché se fosse il primo sarebbe l’Uno; sarà qualche cosa che è distante, poi sempre più distante dall’Uno. La distanza sempre maggiore la chiamiamo “male”, ma è frutto di un’ottica nostra sbagliata, è come dire che il raggio di Sole non è il Sole; è vero, il raggio di Sole non è proprio dell’intensità della fonte da cui proviene, ma è pur sempre un pezzo di Sole, in altri termini il raggio di Sole rispetto al Sole lo potremmo chiamare male, perché è debole, è pallido, è meno luminoso, è meno caldo, ma è pur sempre una parte, una propaggine, una manifestazione del Sole.

In questo senso, partecipando tutte le creature all’Uno, le potremmo chiamare male, negativo, ma si tratta di una nostra prospettiva sbagliata: esse sono semplicemente entità più distanti dall’Uno rispetto al cuore dell’Uno; ma questa fonte luminosa non può contenere tutto, ha la caratteristica di uscire fuori di sé.

In Plotino c’è il concetto di trascendenza e immanenza del divino contemporaneamente: tutte le cose sono come raggi del Sole, quindi partecipano sempre della divinità dell’Uno, della primarietà dell’Uno, però non sono proprio l’Uno, sono a una certa distanza dall’Uno, quindi non coincidono con l’Uno; l’Uno sta fuori di loro, è trascendente, ma nello stesso tempo partecipano dell’Uno, quindi l’Uno sta dentro di loro, tutte le cose sono immanenti nell’Uno.

Ora, la caratteristica delle idee è che le idee sono connesse le une con le altre da rapporti di unità profonda tra di loro. Se consideriamo gli oggetti nella loro corporeità, c’è una relazione di esteriorità tra di loro, ma dal punto di vista delle idee c’è un rapporto di unità. Infatti le idee sono sempre idee che si riconnettono a un intelletto pensante, quindi, mentre il mondo delle cose corporee è un mondo di entità esterne le une dalle altre, le idee sono invece sempre connesse dall’unità della mente che le pensa.

Viene fuori un importante insegnamento di Plotino che è questo: si fa un errore ogni volta che si considera una entità e la si vuole giudicare per se stessa, come staccata dalle altre; le entità sono tutte in fondo ideali, quindi fanno parte di una unità profonda. Bisogna stare attenti in quanto apparentemente sono separate, ma invece nel profondo sono strettamente connesse tra di loro.

La catena continua delle manifestazioni dell’Uno

Come abbiamo visto Plotino disegna una struttura molto architettonica: si parte dall’Uno, poi c’è l’intelletto che è il dualismo, poi c’è l’anima del mondo che insemina le idee nella materia, poi c’è la materia formata dalle idee che è l’ultima propaggine dell’Uno. A questo punto, ci sarà un capovolgimento: l’uomo dalla materia deve cercare di risalire all’Uno. Plotino sostiene una forte continuità della realtà; ritornando all’esempio del Sole, esso non ha interruzioni, i suoi raggi sono continui, vanno degradando fino a che all’estremità del sistema solare la sua luce si confonde con le tenebre, ma non c’è una frattura per cui un raggio di Sole si interrompe e poi riprende da un’altra parte. Nella catena degli esseri ci deve essere continuità.

L’uomo vive in una posizione privilegiata, che verrà messa fortemente al centro dal neoplatonismo umanistico: l’uomo sta al centro di questo sistema e quindi deve cercare di muoversi verso l’alto, ma evidentemente tra l’intelligenza con la I maiuscola e l’intelligenza dell’uomo si deve ipotizzare che ci siano altri esseri intermedi con intelligenza maggiore dell’ uomo, ma minore dell’Intelligenza. Questo livello intermedio per certi aspetti nella teologia cristiana viene identificato col mondo angelico, ma se c’è una continuità assoluta degli esseri, dall’uomo si passa alla scimmia, si passa a mammiferi meno intelligenti, agli anfibi fino ai vegetali che hanno solo l’“intelligenza” per orientarsi verso il Sole; assistiamo a un degrado dell’intelligenza dall’uomo in giù, ma dall’uomo all’intelligenza suprema, al nous, come lo chiama, c’è un salto troppo grande, allora se volessimo applicare Plotino a prospettive dei nostri giorni, dovremmo dire che tra l’uomo e l’intelligenza con la I maiuscola si devono ipotizzare tanti altri gradini di intelligenza; da un punto di vista plotiniano possiamo affermare che possono darsi altre civiltà intelligenti, più intelligenti dell’uomo, ma non perfettamente intelligenti, magari civiltà di esseri extra-terrestri che hanno conoscenze e intelligenza maggiori delle nostre, con cui un giorno forse entreremo in contatto, permettendo di colmare questa strana frattura che allo stato attuale delle nostre conoscenze si presenta tra noi e l’intelligenza suprema.

«In virtù dell’Uno tutti gli esseri sono quel che sono… Che cosa infatti un essere sarebbe, se non fosse uno?… [Ogni cosa, se non ha una sua identità, una sua unità, non è niente: l’identità è il fatto iniziale per poter esistere]. L’esercito, il coro, il gregge non esistono, se non costituiscono ciascuno un’unità. E così pure la casa e la nave esistono solo finché posseggono unità. E analogamente le grandezze continue non esisterebbero, se loro non appartenesse l’unità: se infatti esse vengono divise, in quanto con ciò perdono l’unità, cambiano il loro essere. E anche gli organismi delle piante e degli animali sono in quanto ciascuno è un corpo uno; ma se esso dividendosi in parti perde la sua unità, perde anche l’essere che aveva e non è più quello che era, bensì si cambia in altri esseri, che, in quanto sono, sono anche essi forniti di unità. E c’è salute, quando il corpo è intrinsecamente coordinato in unità, e c’è bellezza, quando l’unità tiene insieme le parti, e c’è virtù nell’anima, quando tutto in essa è volto a unità e armonia. Ecco perché si risale sempre a un’unità. In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire, e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente (non certo immediatamente all’Uno assoluto)».

Le cose sono in una scala discendente: ci sono livelli progressivi di unificazione; bisogna stare attenti a non saltare un livello, bisogna procedere ad unificare le cose, ma stando attenti a unificarle correttamente, senza saltare all’unità suprema: c’è un’unità organica che è difficile cogliere; non si può dire semplicemente che tutto è Uno; la dialettica, la vera filosofia, per Plotino è una scienza difficile in quanto consiste nell’unificare, ma unificare le cose che sono unificabili; se invece non si unifica bene si cade nell’errore, il problema vero è quello di fare uno sforzo per capire quali sono i livelli di raccordo dei fenomeni, cioè quali sono i loro momenti di unificazione; oggi, se non si intende qual è l’elemento di unificazione del mondo contemporaneo, non si può capire veramente nessuna sua manifestazione.

L’Uno ineffabile (approfondimento)

«Finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto, che non si riconduce ad altro. Chi coglie l’unità della pianta - il principio permanente del suo sviluppo - o quella dell’animale o quella dell’anima o quella del tutto, coglie ciò che v’ha in ciascuno di più potente e di più pregevole… Certo il principio di tutto non è nulla di ciò di cui è principio…, appunto perché è superiore a tutto. Ma se fai astrazione dall’essere per coglierlo, resterai pieno di maraviglia; e indirizzandoti verso di esso e imbattendoti in esso e riposando nelle cose sue, lo afferrerai col pensiero o piuttosto attraverso una specie d’impressione, e abbraccerai la sua grandezza attraverso la quantità di esseri che sono da lui e per opera sua».

Questa unità in sé stessa non si può cogliere con il pensiero discorsivo che implica il ragionamento, perché il ragionamento dell’intelletto implica tanti termini che costituiscono gli anelli della catena del ragionamento. Proprio per essere strutturato come gli anelli di una catena, ha bisogno della pluralità, e quindi non può cogliere l’Uno, che invece è puntuale; allora Plotino afferma che questa realtà superiore si può afferrare per una sorta di intuizione ed essa in verità è ineffabile. L’Uno rimane qualche cosa di inafferrabile, infatti dice subito dopo: «Esso in verità è ineffabile». «Qualunque cosa si dica di lui, voi direte sempre qualche cosa: ed esso è al di là di ogni cosa». Qualunque cosa si dica dell’Uno lo si particolarizza, lo si determina: se dico che l’Uno è onnipotenza, gli ho dato una qualità precisa, quindi gli ho anche tolto spazio, in qualche modo non è più l’Uno assoluto, in quanto l’ho determinato, l’ho circoscritto, l’ho delimitato chiamandolo appunto “onnipotente”, quindi neppure gli aggettivi più positivi si possono usare per l’Uno.

«Come allora parlare di lui? Noi possiamo parlare di lui, ma non per esprimerlo: non abbiamo di lui conoscenza né pensiero. - Ma come parlare di lui, se non lo afferriamo in qualche modo? In verità, se noi non lo possediamo per via di conoscenza, non si può dire che non lo possediamo in alcun modo. Noi lo possediamo abbastanza per parlare di lui, ma senza che le nostre parole lo esprimano. Noi diciamo ciò che esso non è; non possiamo dire quel che esso è: e diciamo di lui, partendo da quel che è al di sotto di lui. Noi diciamo di lui: “è così”: questo sarebbe delimitarlo e dire che è tal cosa. Chi lo ha visto non può dire di lui “è così” e neppure “non è così”: questo significherebbe dire che esso è qualcuna delle cose di cui si dice che sono così. Ma quando si è contemplata la sua indeterminazione, si possono enumerare tutte le cose che sono dopo di lui, e dire che esso non è alcuna di quelle».

Porfirio racconta che Plotino cercò di arrivare in Persia, poi, a rischio della vita, se ne dovette tornare precipitosamente a Roma, dove tenne scuola per più di vent’anni. Nel leggere dell’ineffabile viene in mente il concetto indiano del Nirvana per cui lo stadio supremo raggiunto dal saggio è uno stadio che non si può raccontare: il Nirvana è un’estasi mistica non riferibile poi agli altri. Plotino è un filosofo greco, ma risente di influenze orientali. «Perché l’Uno non è rimasto in se stesso e da esso è scaturita questa tanta molteplicità che noi osserviamo negli esseri?…», l’unità che deve esistere per forza, l’elemento iniziale poteva anche rimanere nella sua quiete.

Il punto indistinto di materia da cui è nato il big bang, si potrebbe dire oggi, avrebbe potuto rimanere compresso in quella sua unità estremamente concentrata, perché invece si è espanso? Questo è un problema che Plotino risolve rilevando la natura stessa sovrabbondante dell’Uno. «E se esso rimane immobile, come è da concepire ciò che è attorno ad esso?», appunto l’Uno è immobile come diceva Parmenide, il muoversi implicherebbe un’imperfezione, un dualismo l’andare verso il non Uno, verso un altro da sé, quindi l’Uno è immobile. Allora come si deve concepire ciò che è intorno ad esso? Come un’irradiazione che viene da esso, da esso che resta immobile; questa irradiazione somiglia davvero al big bang.

«Come un’irradiazione (perilampsis) che viene da esso, da esso che resta immobile, nella stessa guisa che la luce del Sole, splendente attorno ad esso, da lui proviene, da lui che pur resta perennemente immobile. E del resto tutti gli esseri, finché sussistono, producono di necessità - dalla loro stessa essenza, dalla potenza che è in loro - una realtà, la quale, attorno ad essi e in dipendenza da essi, tende verso l’esterno, ed è come l’immagine di quegli esseri da cui deriva».

L’Uno, ma anche qualsiasi altro essere, emanano da sé qualche cosa, hanno un’influenza nella realtà per il semplice fatto di esistere, di esserci.

«Così il fuoco irradia da sé calore, e la neve non conserva solo dentro di sé il freddo; e specialmente le sostanze odorose attestano questo fatto: finché esse sussistono, promana da esse all’intorno un profumo, realtà di cui gode tutto ciò che è circostante. Immaginate una fonte che non ha origine, e che dà la sua acqua a tutti i fiumi, senza esserne esaurita, restando anzi tranquillamente la stessa, e i fiumi che scaturiscono da essa confondono da principio le loro acque, prima di scorrere ciascuno in direzione diversa, e pur sapendo ciascuno dove il suo corso si volgerà. O immaginate la vita di un albero immenso, che circola attraverso l’albero intero, pur rimanendo il principio di essa immobile, senza disperdersi nell’intero albero, in quanto risiede nelle radici. Questo principio fornisce alla pianta intera la vita nelle sue molteplici manifestazioni, ma esso resta immobile, non essendo esso molteplice, bensì principio della molteplicità».

La dialettica

Dall’unità del tutto nasce un metodo per l’uomo che vuole capire le cose e tale metodo è la dialettica. «Ma che cosa è questa dialettica che si deve insegnare al musico e all’amante?» Il musico è l’amante delle muse, delle arti, non solamente della musica, che è una via per avvicinarsi all’Uno. Che cos’è la dialettica? «E’ una scienza che, per ogni oggetto dato, ci rende capaci di esprimere con un discorso che cosa è questo oggetto», quindi ci fa capire l’essenza dell’oggetto «in che cosa esso differisce dagli altri» per capire l’essenza lo dobbiamo mettere per forza in relazione con gli altri: l’identità si può cogliere soltanto in relazione all’alterità, quindi per capire che cosa è un oggetto devo capire in che cosa differisce dagli altri «ciò che ha in comune con essi, e tra quali oggetti e in quale classe si trovi; essa determina altresì il tipo di esistenza che le compete, il numero degli esseri di un dato genere e il numero degli esseri che non appartengono a questo genere, ma ne differiscono».

Quindi è un continuo gioco di ricerca dell’identità e delle differenze, è un continuo gioco di messa in relazione di una cosa con le altre.

«La dialettica verte ancora sul bene e sul suo contrario; è essa che definisce l’eterno e il non eterno, e in tutto ciò procede per scienza e non per opinione. Essa si ferma, nel suo errare per il modo sensibile, solo quando attinge l’intelligibile, e lì ha termine la sua attività; allontana da sé il falso e nutre la nostra anima, secondo l’espressione di Platone (Fedro 248b), nel campo della verità: essa usa il metodo platonico della divisione per distinguere le specie da un genere, per definire, e per pervenire ai generi primi; poi mediante l’intelletto essa fa di questi generi una sintesi complessa fino a quando ha percorso tutto il campo dell’intelligibile, e poi, per un processo inverso, che è quello dell’analisi, essa ritorna al principio».

È un intreccio continuo di analisi e sintesi. L’Uno, l’intelletto, l’anima del mondo, la materia: siamo arrivati al mondo corporeo. La vita dell’uomo dovrà consistere in un tentativo di ascesa verso l’Uno, di riattingimento dell’Uno, di questa realtà suprema. Questa sarà la via della salvezza e in questo senso Plotino si ricollega a esigenze soteriologiche della nuova epoca inaugurata dal cristianesimo.

La via verso l’Uno

Come si raggiunge l’Uno? Prima di tutto attraverso la virtù, attraverso le virtù civiche, attraverso le virtù fondamentali, la prudenza, la giustizia. Plotino però sostiene che le virtù, che riprende da Aristotele, sono qualche cosa di manchevole: il coraggioso è colui che affronta il pericolo consapevolmente però, dice Plotino, sarebbe preferibile non dover affrontare il pericolo; il medico capace è colui che cura la malattia e quindi è virtuoso, se sa guarire, ma sarebbe molto meglio non cadere ammalati.

La virtù ci mette sulla strada dell’Uno in quanto ci fa rivolgere a qualche cosa che è un valore interiore e ci fa dimenticare di noi stessi e dell’esteriore. Se ci si avvicina all’interiorità ci si avvicina all’Uno, ma la virtù è imperfetta, in quanto implica sempre che qualcuno è virtuoso se sfugge un male, ma sarebbe molto meglio non dovere sfuggire nessun male: c’è l’idea greca che l’azione in fondo è sempre qualche cosa di secondario, di banale. Non si tratta di agire virtuosamente, non si tratta di pratica, si tratta di teoria: bisognerà andare oltre le virtù verso il congiungimento con l’Uno, quindi l’uomo veramente degno di questo nome non è colui che agisce praticamente, sia pure in maniera virtuosa, ma colui che contempla, che arriva all’intuizione dell’Uno.

Immediatamente dopo la virtù, che è un primo gradino nell’ascesa verso l’Uno, ci sarà la bellezza, la musica (intesa come il mondo delle muse), di tutte le arti: le arti ci avvicinano all’Uno, in quanto sono dominate dalla bellezza. La bellezza è unità, simmetria, è proporzione: una cosa, una realtà è bella quando gli elementi che la compongono sono fusi in una unità armoniosa. Un brano di musica, una statua, un essere vivente, un paesaggio, tutto quello che è bello, è tale in quanto ha una particolare unità, in quanto in esso si scorge con particolare chiarezza la proporzione, l’armonia di qualche cosa di unitario; se le varie parti hanno raggiunto una perfetta fusione in unità quella cosa è bella, quindi la cosa bella è impregnata di Uno, ci avvicina all’Uno.

Prima viene la virtù, poi viene la bellezza, il gradino successivo è la filosofia, intesa nel senso di dialettica, vale a dire una disciplina mentale che ci permette di scorgere l’unità dietro le apparenti molteplicità dei fenomeni: lo scienziato descrive i fenomeni nella loro diversità, il filosofo invece dietro la diversità cerca di cogliere l’elemento unitario.

La disciplina mentale del filosofo avvicina all’unità, ma il culmine però è il cogliere l’Uno in se stesso, vale a dire l’estasi, cioè l’uscire fuori di se stessi, l’immergersi nell’unità stessa senza poterne poi dire niente, vivendo quella esperienza ineffabile di cui abbiamo detto. Il “ciclo alessandrino”, detto così perché il neoplatonismo si sviluppò ad Alessandria d’Egitto, consiste in questo, che si parte dall’Uno e si discende fino all’uomo e l’uomo poi si risolleva dalla materia fino all’Uno di nuovo con una sorta di circolarità.

Plotino sostiene che non bisogna cercare di agire rivolgendosi all’esterno e considerando le cose come esteriori rispetto a noi ed esteriori le une rispetto alle altre, ma bisogna agire per contemplazione, cioè per una sorta di trasporto della propria essenza stessa, quindi rivolgendosi all’interno e coltivando l’interiorità, piuttosto che cercando di manipolare l’esteriorità. Contemplazione significa che ognuno da sé stesso, come l’Uno, nella sua piccola dimensione, si espande e non pretende di manipolare le cose.

Per Plotino non esistono cose esterne le une alle altre: se si va avanti nel tentativo di mettere insieme cose esteriori si raggiunge una apparente capacità di dominio sulla realtà, ma invece la realtà sfugge perché la sua essenza è un’essenza interiore, ideale, che si sottrae a questa capacità manipolativa. L’uomo contemporaneo rischia di avere l’apparenza di una capacità di dominio sempre maggiore, che però in effetti gli fa perdere il vero controllo sulla realtà, che è la realtà dell’interiorità. C’è il rischio che il dominio della realtà sia soltanto apparente, che l’uomo si veda scivolare la realtà dalle mani, si trovi lacerato di fronte alla realtà, si trovi in preda ad una sorta di follia collettiva.

La perdita dell’interiorità, la volontà di manipolazione esterna sono molto pericolose se non vengono fermate da un movimento di interiorizzazione. Oggi, per esempio, anche il corpo umano viene visto come cosa esteriore da manipolare, scisso dalla persona. L’essere umano viene considerato come una cosa. L’atteggiamento di esteriorizzazione, questa schizofrenia dell’esteriorità che viene denunciata da Plotino, paradossalmente sta raggiungendo l’acme nella nostra epoca.

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