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volume_1:presocratici:eraclito

ERACLITO

Il fuoco come arché

Secondo Platone e Aristotele, Eraclito va ascritto ai filosofi ionici, quindi va messo in connessione con Talete, Anassimene e Anassimandro, in quanto anch’egli sarebbe un filosofo naturalista, cioè uno dei pensatori che si sono posti il problema di qual è il principio unificatore dei tantissimi in­dividui, dei tantissimi fenomeni che troviamo in natura, di qual è il sostrato comune a tutti, che ci permette appunto di parlare di un’unica realtà, di un’unica natura, di un solo universo pur in presenza di innumerevoli individui, di innumerevoli fenomeni molto diversi gli uni dagli altri.

Lo raggruppiamo insieme con Talete, Anassimene e Anassimandro, sia sulla base dell’autorità di Platone e di Aristotele, sia nello spirito della divisione che fa Hegel. Hegel sostiene che i pensatori presocratici si dividono in due gruppi: quelli che vengono dalla parte orientale rispetto alla Grecia, dalle colonie orientali - appunto gli ionici, i quali sono legati ancora a immagini fortemente sensibili (gli elementi naturali, l’acqua, l’aria, il fuoco) - mentre coloro che chiama “i Greci d’Italia”, cioè i filosofi della Magna Grecia (Pitagora, Parmenide, Zenone, Empedocle) raggiungono una più forte capacità astrattiva, lasciano le immagini concrete e si riferiscono all’arche in ter­mini astratti.

I filosofi naturalisti si pongono questo problema fondamentale: qual è il principio unificatore della realtà? Abbiamo detto che Talete lo vede nell’acqua, per il fatto che quando si cerca il principio di unificazione in que­sti pensatori si cerca il principio della vita: la realtà coincide con la vitalità. Per i naturalisti ionici non c’è niente di morto, d’inorganico, la realtà è tutta quanta vitale, di conseguenza cercare il principio di unificazione della realtà significa cercare il principio della vita stessa. Ma, a parte quest’identificazione dell’arché con l’ac­qua, quello che più ci interessa di Talete è il fatto che sia il primo che fonda una categoria filosofica, la categoria di unità: infrange il muro della sensibilità, dell’apparenza, del fenomeno e si pone il problema di quello che è dietro il fenomeno; dietro il fenomeno che ci mostra la diversità c’è un’unità sostanziale.

Abbiamo rilevato però che, anche se Talete ci ha dato la categoria dell’unità del mondo, il suo rimane un percorso a metà, in quanto il mondo si presenta anche nell’aspetto della molteplicità. Abbiamo detto che l’altra metà del percorso è compiuta da Anassimene, il quale apparente­mente sostituisce un elemento naturale all’altro, ma in realtà compie un passo in avanti in quanto sulla base della rarefazione e della condensazione sostiene che l’aria da una parte si trasforma in acqua dall’altra si trasforma in fuoco, in vapore, ecc.. In altri termini cerca un principio che dia conto dell’unità, ma anche della molteplicità.

Mentre Talete aveva unificato il molteplice, Anassimene compie un passo in avanti in quanto cerca di dare conto di entrambe le manifestazioni, l’unità che scorgiamo con l’intel­letto e la molteplicità che scorgiamo con i sensi. Abbiamo completato poi il discorso sulla “scuola di Mileto” con Anassimandro, il quale riesce a cogliere un principio più astratto, l’àpeiron, l’indeterminato, l’illimitato, come presente in tutte le cose. Anassimandro ci ha fornito una categoria ulteriore: ogni cosa fa parte della totalità, è come ritagliata temporaneamente nella totalità e in questa totalità vige una legge ferrea, la legge di necessità per cui le cose si devono avvicendare le une alle altre secondo un ritmo determinato.

Al problema dell ‘arche Eraclito dà una soluzione ricorrendo a un altro elemento, il fuoco, che si può intendere anche in termini naturalistici: l’arché deve essere qualche cosa di presente dappertutto e il fuoco è presente dappertutto in quanto ogni cosa - dice Eraclito - si può scambiare col fuoco, ogni cosa può prendere fuoco, si trasforma in fuoco; inoltre, se teniamo presente che ogni cosa è vivente, l’elemento più mobile e vivo, che dà l’idea della vita, è il fuoco. In Eraclito è però chiaro che il fuoco è un simbolo, è il simbolo della mobilità, del divenire: la vera arché, il vero principio unificante della realtà per Eraclito è il divenire: tutte le cose sono unificate dal fatto che nessuna di esse è immobile, eterna, fissa, uguale a se stessa, tutte le cose sono soggette a un mutamento.

Eraclito tiene presente il fatto che i cicli stagionali, i cicli della natura, i cicli anche della vita umana, si avvicendano continuamente: nessuna cosa rimane ferma e identica a se stessa.

La compresenza di essere e divenire

Questo è però solo un oggetto del suo pensiero: Eraclito veniva soprannominato Scoteinós, l’Oscuro e i suoi frammenti sono difficili da interpretare. Qual è il motivo della oscurità di Eraclito? Se ne è discusso molto. Contemporanei e successori hanno sostenuto che era uno spirito solitario, un uomo scorbutico, aristocratico, nemico del popolo, nemico della democrazia. Qualcuno, a cominciare da Diogene Laerzio, ha sostenuto che Eraclito ha scritto in maniera oscura in quanto non si voleva far capire.

Probabilmente la realtà è che Eraclito nei frammenti di più ardua interpretazione cerca di dare conto di due aspetti della realtà contemporaneamente, in quanto è vero che Eraclito è il filosofo del divenire, eppure egli cerca di dare conto non soltanto del trasformarsi, ma anche del permanere delle cose. Allora il linguaggio necessariamente finisce col divenire ambiguo, in quanto deve dare conto di due aspetti contraddittori della realtà.

In effetti secondo Eraclito è la realtà stessa a essere contraddittoria. E’ vero che ci presenta ai sensi un continuo mutamento, ma nello stesso tempo intuiamo che c’è qualche cosa che permane, dietro il mutamento: un fiume è continuamente in movimento, in cambiamento «non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume», dice Eraclito, e questo è vero perché nel momento successivo il fiume è diventato altro da quello che era, altra acqua è stata portata dalla fonte, altra acqua è scesa nella foce a mare, si saranno mossi i detriti sullo sfondo, insomma un attimo dopo il fiume non è lo stesso fiume che avevamo visto appena un attimo prima - eppure noi lo chiamiamo con lo stesso nome.

Sotto il fluire ci deve essere qualche cosa di permanente: un individuo umano si trasforma talmente nel corso della sua vita, che a volte nella persona adulta non riconosciamo l’immagine che ci presenta lo stesso individuo da bambino: l’aspetto esteriore è mutato, è divenuto completamente altro, ma non è veramente altro, è restato in qualche modo anche quello che era. Ogni cosa contemporaneamente è quello che è e non è quello che è; bisogna tener presente tutti e due gli elementi.

Eraclito, pur essendo il filosofo del divenire, cerca di contemperare il divenire con l’essere; per lui dappertutto c’è qualche cosa che rimane identico a se stesso e qualche cosa che cambia; ogni entità è contemporaneamente nel divenire e in permanenza con se stessa; è identica con sé e diventa altro da sé.

Il lògos

Abbiamo detto che l’arché consiste nel divenire, un divenire in cui però c’è la permanenza di una struttura essenziale identica a se stessa. Ma c’è un messaggio più forte in Eraclito: il divenire è un mutamento continuo, ma solo apparentemente disordinato; in effetti il divenire, il mutamento, le tra­sformazioni sono scandite da leggi necessarie. Probabilmente Eraclito considerava il divenire delle stagioni, della nascita e della morte, della veglia e del sonno che sono appunto esempi che adduce; questo lo dice con estrema forza e con intento polemico contro gli uomini comuni, gli uomini che chiama dormienti, quelli che non scorgono l’ordine della realtà, perché è vero che tutto muta, però tutto muta secondo una legge assolutamente necessaria.

Quindi Eraclito è forse il fondatore primo del concetto del lògos. Eraclito è il primo che vede il mondo come un cosmo ordinato, disposto secondo leggi necessarie. Queste leggi necessarie e assolute non vengono riconosciute da tutti, pur essendo alla portata di tutti. Le leggi ci sono, ma non è detto che ci si debba accorgere che ci sono. Nello stare in questa stanza, nel toccare oggetti, nel camminare, noi veniamo coinvolti in decine e decine di leggi fisiche che conosciamo grazie a Galilei, a New­ton, ad Einstein; prima che questi geni le scoprissero non erano note, ma funzionavano lo stesso.

Il lògos - dice Eraclito - è eterno, le leggi della re­altà sono assolutamente necessarie ed eterne, altro fatto è che l’uomo si renda conto dell’esistenza di queste leggi: i più vivono come dormendo, senza rendersi conto della presenza di un ordine, di una regolarità, di una legge all’interno della realtà, eppure questa legge esiste, è eterna e necessaria. Ci può essere un principio, una legge, una necessità senza che vengano riconosciuti, ma questo non toglie che esistano.

Qual è il primo di questi principi? Quello che rende oscuri i frammenti: la prima legge è il divenire ordinato, ma divenire ordinato significa trasformazione, e pertanto implica un fatto paradossale anche per il nostro intelletto, cioè che una cosa contemporaneamente è se stessa ed è un’altra. Eraclito in fondo ha introdotto la nozione del tempo: il divenire è la dimensione temporale.

Se introduciamo la dimensione temporale nel considerare le cose, è chiaro che esse da un certo punto di vista sono identiche a loro stesse, ma se si considerano nel loro sviluppo, nella dimensione diacronica, nella dimensione del loro divenire altro, sono diverse da quello che sono. Eraclito accoppia il bianco e il nero, la notte e il giorno, l’essere sveglio e l’essere addormentato. Ogni cosa finisce con l’essere in relazione con il suo opposto, con una determinata altra configurazione della realtà che si presenta come il suo opposto, e questa relazione tra le due cose è necessaria; non è comprensibile un aspetto della realtà senza relazione con quello ad esso opposto; non possiamo avere il concetto di oscuro se non abbiamo il concetto di chiaro, non possiamo avere il concetto di vita se non abbiamo il concetto di morte, “sveglio” non significa niente se non si ha anche il concetto di “addormentato”: i concetti si presentano strettamente collegati con quello che è il loro opposto. Chi pretende di vedere le cose come separate le une dalle altre è impossibilitato a capirle.

Eraclito secondo Diogene Laerzio

Leggiamo come Diogene Laerzio presenta la vita di Eraclito: «Eraclito figlio di Bosone o secondo altri di Eraconto, nacque ad Efeso raggiunse l’acme negli anni della sessantanovesima olimpiade». Acme è il momento di fioritura, che i greci ponevano intorno al quarantesimo anno, che era considerato più o meno il culmine della maturità; dei primi filosofi conosciamo per lo più gli anni della maturità che per Eraclito sarebbero intorno al cinquecento.

La mentalità popolare tende a vederlo come un individuo singolare, come una persona bislacca e questo è dovuto al fatto che il filosofo cerca di scrutare la sostanza, quello che è essenziale dietro l’apparenza. Questa tradizione è presente anche in Diogene Laerzio, il quale dice che Eraclito fu «altero e superbo come pochi altri come risulta chiaramente dal suo scritto la dove dice: “Sapere molte cose non insegna ad essere intelligente altrimenti l’avrebbe insegnato a Esiodo a Pitagora a Senofane e Ecateo, e poi essere saggio è solo questo: comprendere la ragione che governa tutto attraverso tutto”».

Che cosa vuol dire sapere molte cose? La parola greca è polymatia, da poly che significa molti - è il modo di educazione basato sull’accumulare nozioni, apprendere molte cose, separate le une dalle altre, coltivare le scienze, le discipline, le specializzazioni. Accumulare le nozioni come qualche cosa di esterna l’una all’altra è un metodo che non pro­duce alcuna reale comprensione: sommare conoscenza a conoscenza non permette di capire la realtà in quanto il problema è che se la realtà è una (e ce lo insegnano i Greci da Talete in poi) è chiaro che non si può avere una comprensione della realtà a partire dal presupposto che la realtà si divide in molte sfere separate, o, meglio, si dovranno affrontare gli aspetti specifici della realtà, ma ci dovrà essere sempre un momento sintetico.

Contro le molte cose che appesantiscono l’intelletto e non danno comprensione della realtà, essere saggio, diceva Eraclito, è solo questo: comprendere la ragione che governa tutto attraverso tutto, tutto è in collegamento con tutto il resto. Bisogna avere uno sguardo sintetico. Con tono di rimprovero si esprime anche nei confronti dei cittadini di Efeso perché la città aveva bandito il suo amico Ermodoro, che pare fosse una persona molto virtuosa e intelligente. Eraclito vuol dire che per il prevalere della quantità l’uomo eccellente viene messo da parte, perché altrimenti non può avere libero campo la particolarità; l’uomo eccellente, l’uomo che pretende di imporre il punto di vista della ragione, cioè il punto di vista universale, viene emarginato da chi invece vuol far prevalere il particolare.

Il filosofo non è un uomo di potere, non cerca di avere l’esercizio del potere per propri interessi particolari, è disinteressato in quanto è volto all’universale; ma la comunità, retta da principi particolari, cioè da interessi legati alla famiglia, alla casta, all’etnia, all’economia, tende ad allontare i filosofi, tende a espellere i migliori. Quando a Eraclito in un momento di crisi i concittadini chiedono di dar loro una legislazione, egli si rifiuta: «Ad un certo punto i suoi concittadini gli proposero di dar loro nuove leggi, egli rifiutò sostenendo che la città era ormai in preda al malcostume politico, un volta si ritirò nel tempio di Artemide e si mise a giocare ai dadi con i bambini, ciò proprio per significare che c’era più speranza nella giovane generazione che nella corruzione di Efeso; agli efesi che lo guardavano stupiti disse: perché vi me­ravigliate gente malvagia, non è meglio far questo che occuparsi di politica in mezzo a voi? Alla fine non sopportando più la compagnia degli esseri umani si ritirò dal contesto civile e andò a vivere sui monti».

«Fin dalla fanciullezza suscitò meraviglia, da giovane diceva di non sapere nulla, da adulto diceva di sapere tutto, non ebbe maestri, diceva di aver studiato se stesso e in se stesso aveva trovato tutto quello che c’era da imparare». Anche in questa testimonianza il filosofo è presentato in una luce malevola: un presuntuoso che non ha avuto maestri e pretende di im­parare tutto da sé.

In effetti probabilmente Eraclito aveva imparato tutto da sé, ma nel senso che aveva fondato il concetto di lògos, il concetto di lògos implica che è la realtà ad avere una logica, ma anche l’uomo ha una logica, e la logica umana rispecchia la logica della realtà. C’è un parallelismo tra la mente umana con la sua razionalità e la razionalità del cosmo, conoscere il cosmo significa conoscere se stessi.

Il libro che gli viene attribuito si intitola La natura, perì physeos in greco, a causa del suo argomento principale, ma si divide in tre discorsi: sul tutto, sullo Stato, sulla divinità. La filosofia fin dalle proprie origini non è qualche cosa di avulso dal mondo, si interessa della natura per capire come deve funzionare lo Stato cioè come deve funzionare la convivenza umana; la filosofia si interessa in maniera primaria dei rapporti tra gli uomini.

«Eraclito depose il suo libro nel tempio di Artemide, alcuni credono che l’avesse scritto volutamente in forma oscura perché fosse accessibile solo ai competenti e perché non fosse motivo di disprezzo l’essere esso alla portata del volgo». I frammenti sono oscuri per la duplicità di essere e divenire di cui abbiamo detto, ma c’è anche un altro fatto che va accennato: siamo alle origini della filosofia greca, Eraclito dice dell’oracolo di Delfi che esso «non dice e non nasconde, ma accenna», e questo lo riferisce all’oracolo di Delfi, ma in effetti anche a se stesso, in fondo il filosofo non può dire le cose pienamente, in quanto dire le cose con pienezza significa averle capite una volta per tutte.

I frammenti di Eraclito

I frammenti di Eraclito sono stati raccolti da Diels e Kranz, due grandi filologi tedeschi, e sono 145, di cui 130 sicuramente autentici. Diels li ha riportati secondo la fonte in cui li aveva ritrovati. Questi frammenti sono stati ricavati da scritti di Sesto Empirico, di Platone, di Cicerone e di altri autori. Diels li ha raggruppati a seconda dell’autore in cui li ha ritrovati, non si è sentito di dare un ordine a questi frammenti. Leggiamone qualcuno fra i più significativi:

«Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né due volte toccare una sostanza mortale nello stesso stato».

Perché la sostanza mortale, cioè il corpo biologico, deve continuamente trasformarsi; se si fermasse il metabolismo, sia pure per breve tempo, moriremmo; ogni organismo vivente è generato e si mantiene in vita per un continuo mutamento delle forze che lo tengono in equilibrio e quindi non è mai due volte lo stesso,

«non si può mai toccare una sostanza mortale nello stesso stato, ma per l’impeto e la velocità della mutazione si disperde e di nuovo si ricompone, viene e se ne va».
«A chi discenda negli stessi fiumi sopraggiungono sempre altre e altre acque, noi scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo».

Quando Eraclito dice “siamo e non siamo” intende che noi diveniamo, ma siamo anche nello stesso tempo cioè abbiamo un’identità ferma con noi stessi che ci permette di conoscere il mondo; se non avessimo questa identità, questo elemento di stabilità, questo elemento di essere a fianco a quello del divenire non potremmo conoscere niente. Come si può spiegare questo fatto? In maniera molto semplice: noi siamo il soggetto, il mondo è l’oggetto, l’oggetto cambia. Questo è semplice: il fiume che si trasforma, che trascina le acque a mare, ecc. … Se il soggetto è continuamente in mutamento non può misurare niente, non può conoscere niente; è come se volessi prendere misure con un metro che cambia dimensione ogni momento, è chiaro che se il soggetto cambia continuamente non può misurare la realtà. Sarebbero impossibili ogni conoscenza e ogni comunicazione, in quanto la comunicazione implica che mi riferisco alla bottiglia come bottiglia, la bottiglia tra poco potrà essere mezza vuota, ma nello stesso tempo ha qualche cosa che permane.

Bisogna trovare l’essere e il divenire in ogni cosa e prima di tutto nel soggetto, perché è vero che noi comunichiamo, è vero che conosciamo, e allora è vero che ci deve essere qualche cosa che permane e qualche cosa che muta, ci sono tutte e due le cose: l’essere e il divenire, noi stessi siamo e non siamo.

«Mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro».

Come la moneta può essere scambiata con tutto, così il fuoco può essere scambiato con tutto. Il fuoco è l’arché - perché abbiamo detto l’arché deve essere qualche cosa che è presente dappertutto - «e tutte le cose si possono scambiare col fuoco» cioè tutto può diventare fuoco.

«Quest’ordine universale che è lo stesso per tutti non lo fece alcuno tra gli dei o tra gli uomini, ma sempre era, è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura».

Il fatto che quest’ordine sfugga, non sia tenuto presente dai più, non toglie niente. Facciamo un esempio semplice: consideriamo il teorema di Pitagora - il teorema di Pitagora prima di Pitagora non era stato identificato, ma i triangoli rettangoli non avevano caratteristiche diverse prima che Pitagora ne descrivesse i rapporti nel suo teorema; per i Greci la materia è sempre stata e sempre sarà, è soltanto soggetta a mutamenti: da caotica diventa ordinata, assume forma, ma essa c’è sempre stata e sempre ci sarà.

«Di questo lògos che è eterno ignari sono gli uomini e prima di ascoltarlo e subito dopo averlo ascoltato, perché pur producendosi ogni cosa secondo questo lògos, somigliano a chi non ha esperienza anche quando sperimentano opere tali quali io spiego, secondo natura analizzando ogni cosa ed esponendo com’è; agli altri uomini sfugge quel che fanno da svegli come non hanno coscienza di quel che fanno dormendo».

Gli uomini sono ignari, non si accorgono di questo lògos, né prima, né dopo. E una frase enigmatica che si potrebbe spiegare in questi termini: gli uomini non si accorgono che ci sono leggi necessarie e anche quando queste leggi le afferrano, le afferrano in quel momento però poi se le dimenticano. Ricordiamo che per i Greci la dea della civiltà, la madre delle muse è Mnemosyne, la dea della memoria; una volta che si è capita una cosa non è detto che poi la si ricordi, che sia veramente viva, che sia una parte viva di sé stesso. Eraclito è sferzante e dice: gli altri o non si accorgono proprio che c’è un’ordine delle cose, oppure se ne accorgono e poi, per la propria pigrizia, si addormentano e se lo dimenticano.

«Bisogna dunque seguire ciò che è comune, ma pure essendo questo lògos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza».

Che cosa significa che il lògos è qualcosa di comune? Il lògos permette a tutti di capire la realtà oggettivamente - come due più due fanno quattro universalmente perché questo è presente nella razionalità delle cose: qualunque altra facoltà fuori del lògos, della ragione mi porta a divergere dall’altro. Quando commenta queste frasi di Eraclito Hegel dice: i sentimenti anche più nobili, anche più altruistici, sono cose bellissime, ma sono pur sempre personali; il mondo non si può fondare sul sentimento, perché il sentimento è qualche cosa che porta gli uomini a divergere: uno ha simpatia per una cosa, un altro ha antipatia, uno ha aggressività mentre un altro ha trasporto verso una persona. Sentimenti, passioni, istinti, tutte le altre facoltà umane sono di carattere particolare, individuale e portano quindi al conflitto tra uomo e uomo, quello che porta all’unificazione, all’unità è il lògos’, è la ragione che è comune, e soltanto se si ragiona si raggiunge un risultato comune.

Spesso viene rivolta questa obiezione: si può immaginare un mondo in cui tutti quanti ragionano nello stesso modo e sarebbe un modo piatto, grigio. No! Perché l’uomo non ha la conoscenza assoluta e non adopera la ragione come un essere onnisciente, come Dio, l’uomo adopera la ragione con uno sforzo continuo. Quando, per esempio, c’è stata la polemica sul calcolo infinitesimale, si sono scontrati Leibniz e Newton, oppure sulle particelle subatomiche si sono scontrati Niels Bohr, Max Planck, Albert Einstein etc. … Per capire un fenomeno ci possono essere tante posizioni diverse, adoperare la ragione non vuol dire trovarsi tutti quanti d’accordo, può anche implicare lunghi periodi di scon­tri, di confronti. Ma l’importante è che si stia adoperando la ragione, cioè che si voglia cercare la verità.

Se invece ci sono in ballo altri fattori come i sentimenti o le passioni o le inclinazioni politiche o i propri interessi è chiaro che non si arriva mai a niente di comune, al comune di cui parla Eraclito: “bisogna seguire ciò che è comune” non implica alcun appiattimento, può significare anche la massima diversità perché nel cammino della ragione ci sono tante diversità, ma l’importante è che si usi la ragione.

«Dal lògos col quale stanno sempre continuamente insieme essi discordano e quelle cose in cui ogni giorno si imbattono appaiono loro estranee».

Gli uomini non si rendono conto che anche nella vita che conducono ci sono leggi che sono economiche, politiche, affettive, ma pur sempre sono leggi precise. Dice Eraclito «il pensare è a tutti comune».

Il lògos è l’elemento unificante dell’umanità: tutti gli uomini sono dotati di ragione, quindi razionale vuol dire universale, la ragione è un punto di riferimento del progresso proprio dell’umanità in tutti i campi, perché significa universale, significa fratellanza, significa comunanza tra gli uomini. Il pensare è a tutti comune ma non tutti adoperano il pensiero, quindi il problema è quello di far prevalere il pensiero nel confronto con le altre facoltà. Il messaggio di Eraclito è un messaggio egualitaristico, egli afferma “tutti quanti gli uomini hanno il pensiero quindi tutti gli uomini sono uguali”, ma nello stesso tempo non tutti adoperano il pensiero quindi sono uguali nella loro più alta facoltà, ma non sono uguali nelle altre facoltà. Per fare trionfare l’uguaglianza bisogna fare trionfare la ragione: l’uguaglianza significa razionalità, non significa uguale distribuzione o cose di questo genere: uguaglianza significa il prevalere della ragione, e la ragione deve emergere in ogni uomo, anche se come possa emergere in ogni uomo la razionalità costituisce un problema enorme.

«Chi parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è comune a tutti, come una città sulla legge, anzi molto più saldamente. Poiché tutte le leggi umane sono nutrite dall’unica legge divina; ché essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa».

Chi parla con intelligenza cioè secondo il lògos si deve appoggiare su ciò che è comune a tutti “come una città sulla legge”: il paradosso non è facilmente comprensibile al giorno d’oggi perché viviamo in un epoca di sfrenato individualismo. Per quanto riguarda il lògos naturale ci sono leggi fisse: il fuoco si accende a misura e a misura si spegne secondo leggi necessarie. Visto che viviamo all’interno di una convivenza con tanti altri nostri consimili la possibilità di esercitare la libertà è data soltanto all’interno della legge; c’è un cosmo politico come c’è un cosmo naturale, e un comportamento organizzato può essere organizzato solo da regolamenti che in altri termini equivalgono alle leggi della natura e si chiamano leggi politiche, civili, giuridiche, ecc.

«Dio è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, fame-sazietà, il suo mutare è come quello del fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome da ciascuno di essi».

Dio è la compresenza dei contrari che però appunto è una compresenza universale e prende diversi aspetti a seconda delle diverse cose. Ci sono leggi divine, c’è una logica universale. Questo Dio è presente dappertutto: è giorno-notte, inverno-estate e prende nome dai profumi nei quali si mescola. E un concetto molto simile a quello di Anassimandro: secondo Eraclito Dio è una presenza, Dio, cioè questo cosmo, quest’ordine della realtà, che poi è anche l’armonia, la bellezza della realtà, è presente dappertutto, ma prende aspetti diversi, come il fumo che emerge dal fuoco prende un aroma diverso a seconda dei semi profumati di cui è cosparso; il fuoco sa di un particolare profumo, il fumo che ne emerge sa di un particolare profumo, ma pur è sempre manifestazione del fuoco.

Vuol dire che il divino, come l’àpeiron di Anassimandro, è presente dappertutto, ma si configura in maniera diversa. Tutta la realtà - i fiori, le piante, i boschi, i ruscelli, gli esseri umani, gli animali - sono tutti divini e sono manifestazioni diverse di un unico pricipio divino, cosmico, di armonia, del lògos.

«Pólemos, [la guerra, termine che è maschile in greco] è padre di tutte le cose, di tutte re e gli uni gli svela come dei e gli altri come gli uomini, gli uni li fa schiavi e gli altri liberi».

La seconda parte del frammento è molto controversa. “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi” significa che niente può sussistere se non è in una continua tensione di antagonismi contrari, cioè ogni cosa nasce dallo scontrarsi di equilibri opposti; come abbiamo accennato la nostra stessa esistenza è possibile perché continuamente c’è un metabolismo nel nostro corpo, ognuno di noi può esistere solamente in quanto si sviluppa, si muove, cresce, ecc. Ma la stasi equivale alla morte. L’unità apparente delle cose è semplicemente un equilibrio tra momenti divergenti, ci sono dissonanze che si compongono continuamente, ogni cosa nasce dalla convergenza di forze diverse, è un momento di unificazione di forze diverse.

«La stessa cosa sono il vivo e il morto, lo sveglio e l’addormentato, il giovane e il vecchio: questi si trasformano in quelli, e quelli di nuovo in questi».

La spiegazione più banale è che appunto ogni essere è soggetto alla vita e alla morte, alla veglia e al sonno,quindi accontentiamoci di questa visione più semplice per cui gli opposti possono trapassare l’uno nell’altro in uno stesso soggetto.

«Congiungimenti sono intero e non intero, concorde e discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose».

Tutte le cose sono l’unificazione di un molteplice, pure i nostri organismi sono unificazione di organi, la nostra mente è continuamente un tentativo di unificare tutte le esperienze, di mantenere intatta la personalità, quando questa unità si perde si ha la malattia mentale, che nasce quando si sminuisce la mente umana, che si mantiene sana unificando continuamente l’esperienze; il corpo umano è sano quando il principio vitale tiene uniti gli organi, quando questo principio di unificazione viene meno nasce la malattia; il corpo politico si mantiene quando da tutti i cittadini delle varie classi nasce un elemento comune, quando questo elemento comune viene meno emergono la disgregazione e la morte. Tutte le cose sono unità di contraddizione, sono internamente composite.

«Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira».

L’arco e la lira danno proprio questa idea: il primo per l’armonia dei suoni e la seconda per la guerra, quindi per due cose opposte, nascono da forme ricurve e forme rettilinee, ma soprattutto c’è il concetto di tensione: l’arco e la lira Eraclito li prende come esempio in quanto l’una produce suoni magnifici, l’altro produce la morte con lo scoccare la freccia, ma sono due strumenti potenti che nascono dalla confluenza di forze opposte: l’arco è continuamente in tensione, la lira è continuamente in tensione, la unità efficace dell’arco e della lira nasce da tensioni contrapposte.

«Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale».

Le cose sono dualistiche, oltre che loro in stesse, pure rispetto a chi le osserva: l’acqua del mare è imbevibile per gli uomini, è mortifera per gli uomini, per i pesci invece è alimento; insomma, a seconda del soggetto che è a contatto con una cosa, ne emerge un aspetto o un altro, cioè le cose oltre a essere ambigue in se stesse, oggettivamente, come la tensione dell’arco e della lira, sono ambigue anche rispetto al soggetto.

Hegel ha visto in Eraclito il fondatore della dialettica, cioè il fondatore di un modo di pensare diverso da quello abituale; nel modo abituale di pensare una cosa è uguale a se stessa: A è uguale ad A, un bicchiere è un bicchiere, un essere umano è un essere umano; se indichiamo un soggetto con una sigla possiamo dire che è uguale a se stesso, A è uguale ad A, in questi frammenti Eraclito delinea una mentalità diversa che verrà piena­mente sviluppata solamente da Hegel.

Concludiamo con un altro famoso frammento:

«Una e la stessa è la via all’in su e la via all’ingiù»

Può significare semplicemente che se uno sta su una salita è pure su una discesa, ma probabilmente vuol dire un fatto più profondo, cioè che la via è una proprio nella tensione di forze che la fanno essere una via in salita e in discesa, c’è una compresenza di contrari che possono essere visti come salita e come discesa dall’osservatore, ma a parte l’osservatore che la può vedere come salita o come discesa a seconda di dove si trova, la strada stessa in se stessa è la compresenza di direzioni diverse, cioè nell’uno c’è il molteplice.

Crediti

Tratto dagli appunti delle lezioni del prof. Antonio Gargano, segretario dell'IISF ISTITUTO ITALIANO STUDI FILOSOFICI con integrazioni.

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