Per età giolittiana s’intende quel periodo della storia italiana che va dal 1903 al 1914, un decennio che prese il nome dai governi guidati da Giovanni Giolitti, esponente liberale, che caratterizzarono la vita politica italiana sino alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche nei periodi in cui i governi non furono presieduti da Giolitti, egli mantenne comunque la sua preminenza sulla politica italiana.
Tale periodo s’inserisce nell’ultima fase della Sinistra storica: l’età giolittiana fu preceduta da un primo governo transitorio guidato da Giolitti sul finire del XIX secolo, per cominciare propriamente nel 1903, dopo la cosiddetta “crisi di fine secolo”, e concludersi con l’ultimo governo Giolitti, poco prima della marcia su Roma.
L’età giolittiana rappresenta un periodo di importante sviluppo industriale in Italia, che era un paese ancora fortemente agricolo e arretrato, soprattutto nel Sud.
Si svolse nell’ultima parte di quel periodo chiamato, a livello continentale in Europa, Belle Époque. Vide anche, sul finire, la ripresa del colonialismo italiano, con la guerra di Libia.
L’inizio del primo ministero di Giovanni Giolitti coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Francesco Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il Paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Antonio Starabba di Rudinì, il 15 maggio 1892 fu nominato Primo ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino.
A poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre 1893, fu costretto a dimettersi, a causa dei seguenti motivi:
Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, gli elettori (ancora relativamente pochi, a causa del suffragio ristretto) vollero di nuovo affidarsi al governo autoritario di Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai lavoratori. La politica estera di Crispi, aggressiva e colonialista, lo portò a cercare di espandere il controllo italiano in Eritrea, ma una serie di sconfitte culminate con quella di Adua (1º marzo 1896) dove le forze italiane furono battute dall’esercito etiope guidato dall’imperatore Menelik II. Questa sconfitta segnò un duro colpo per l’Italia e per la reputazione politica di Crispi, che fu costretto a dimettersi.
Il periodo che va da questo momento sino al 1901, quando Giolitti ritornò al governo come ministro dell’interno, è comunemente indicato come la “crisi di fine secolo”: un periodo di recessione economica contribuì infatti all’aumento della tensione sociale e politica, che produsse i moti di Milano del 1898 e si tradusse nella successione di più governi (tra cui quello autoritario di Luigi Pelloux), in pochi anni.
Il 5 maggio 1898, a Milano, le proteste esplosero in maniera violenta: migliaia di lavoratori e cittadini si riversarono nelle strade, inizialmente in manifestazioni pacifiche contro il caro vita e per chiedere la riduzione dei prezzi del pane. Tuttavia, le tensioni aumentarono rapidamente e le manifestazioni sfociarono in scontri con le forze dell’ordine, con barricate nelle strade e atti di saccheggio. Per fermare la rivolta, il governo italiano, guidato dal primo ministro Antonio Starabba di Rudinì, incaricò il generale Fiorenzo Bava Beccaris di ristabilire l’ordine. Bava Beccaris adottò una linea di repressione estremamente dura, ordinando l’uso di cannoni contro i manifestanti. Il 7-9 maggio, l’esercito intervenne con una violenza che portò a numerose vittime tra la popolazione: si stima che tra i morti vi furono oltre 80 persone, mentre i feriti superarono i 400.
La repressione dei moti di Milano scatenò forti reazioni in tutta Italia. Da un lato, il governo e il re Umberto I sostennero l’operato di Bava Beccaris: il generale ricevette addirittura una decorazione, la Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia, come riconoscimento per aver ristabilito l’ordine. Questo gesto provocò grande indignazione tra le classi popolari e nei circoli politici progressisti.
L’episodio rafforzò inevitabilmente il malcontento contro la monarchia e il governo, alimentando il crescente movimento socialista e anarchico, che denunciava l’uso della violenza contro i cittadini. Tra i più attivi critici della repressione vi fu Filippo Turati, esponente del Partito Socialista Italiano, che venne arrestato insieme ad altri esponenti del movimento.
Il ricordo della brutale repressione contribuì all’aumento delle tensioni sociali nei decenni successivi e fu anche uno dei fattori che, due anni dopo, portò all’assassinio di re Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci nel 1900. Bresci dichiarò di aver voluto vendicare le vittime della repressione di Milano.
Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di Giolitti alla Camera, emblematico della sua ideologia, contribuì alla caduta del governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova. Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di ministro dell’interno, anche a causa dell’avanzata età del Presidente del consiglio.
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino.
Questo cambiamento gli consentì di seguire un po’ più agevolmente quella politica che si era proposta già all’epoca del suo primo mandato: conciliare gli interessi della borghesia con quelli dell’emergente proletariato (sia agricolo che industriale); a questo proposito è notevole come Giolitti sia stato il primo a proporre l’entrata nel suo governo come ministro al socialista Filippo Turati, che comunque rifiutò, convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. Tuttavia, nonostante l’opposizione della corrente massimalista, in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò dall’esterno il governo Giolitti, che in questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull’invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi a condizione che non turbassero l’ordine pubblico; nelle gare d’appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste.
Giolitti era convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché, da un lato, non avrebbero consentito ai lavoratori di condurre una vita dignitosa e, dall’altro, avrebbero danneggiato il mercato provocando una sovrapproduzione di beni (perché non ci sarebbe stato un adeguato incremento del potere d’acquisto delle classi lavoratrici).
A questo proposito la critica storiografica nota come, da queste migliori condizioni sociali, rimanessero esclusi i lavoratori meno qualificati (in particolare quelli meridionali), di fatto spesso e volentieri emarginati dai progetti politici di Giolitti (e che andarono a confluire nei partiti massimalisti).
Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902 sia nel settore agricolo sia in quello industriale, tanto nel più sviluppato Nord che nel Sud del Paese, dimostravano che tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano ad incidere in profondità sulla precaria situazione della società italiana, soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e spesso interpellata solo come mero serbatoio di voti da ottenere con la corruzione dei deputati meridionali, con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra. Gli intellettuali meridionali non si stancavano di accusare Giolitti persino di connivenza con la criminalità, come scriverà anche Gaetano Salvemini, definendolo «ministro della malavita».
Le riforme moderate non bastavano più: il Paese aveva l’esigenza di riforme radicali strutturali. Non a caso il 1904 fu l’anno del primo sciopero generale della storia italiana voluto per motivi politici dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola, nella speranza che fungesse da stimolo per una rivoluzione proletaria. Però il calcolo politico fallì dinanzi alla tattica giolittiana di lasciare esaurire e sfogare lo sciopero, limitandosi a garantire l’ordine pubblico.
Il 28 marzo 1905, su indicazione di Giolitti, Alessandro Fortis formò il suo primo governo, legato soprattutto alla nazionalizzazione delle ferrovie: una delicata riforma che, se pure attuata, causò la caduta del governo. Fortis allora si dimise il 24 dicembre.
Dopo un secondo, breve Governo Fortis (24 dicembre 1905 - 8 febbraio 1906), dopo un breve ministero Sonnino, Giolitti insediò il suo terzo governo.
Il malessere continuava ad essere diffuso soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia dove, anche a causa dell’aumento demografico e ai numerosi dissesti economici causati da grandi disastri naturali (si ricordi l’eruzione del Vesuvio del 1906 ed il terremoto che devastò Messina e Reggio Calabria nel 1908), continuava l’emorragia dell’emigrazione che divenne un fatto culturale tale da trovare espressioni nella nostra letteratura nazionale, da Giovanni Verga a Luigi Capuana: interi paesi si spopolavano e sparivano antiche culture.
Durante questo mandato Giolitti continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo, e si preoccupò di risanare il bilancio dello Stato, con una più equa ripartizione degli oneri sociali, aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni del Novecento.
Il governo nel 1906 diminuì il tasso d’interesse dei titoli di Stato dal 5% al 3,75% dando la possibilità, a chi non avesse accettato la diminuzione della rendita, di poter ottenere l’intero rimborso dei capitali sottoscritti; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello Stato. Questa manovra provocò una generale diminuzione del costo del denaro, che consentì di ottenere crediti ad un saggio di interesse più favorevole. Questa riduzione dei tassi d’interesse favorì l’industria pesante, che risultava ancora arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che sarebbero stati necessari a modernizzarla.
I proventi che lo Stato realizzò con questa manovra poterono, così, essere impiegati nella realizzazione di grandi opere pubbliche come l’acquedotto pugliese, il traforo del Sempione (1906), la bonifica delle zone di Ferrara e Rovigo, che consentirono l’aumento dell’occupazione e notevoli profitti per le imprese chiamate a realizzarle.
La lira godeva di una stabilità mai raggiunta prima, al punto che sui mercati internazionali la moneta italiana era quotata al di sopra dell’oro e addirittura era preferita alla sterlina inglese.
Lo sviluppo economico si estese, anche se in misura minore, al settore agricolo che, soprattutto con la riapertura del mercato francese, dopo la ripresa voluta da Giolitti delle buone relazioni con la Francia, interrotte dalla politica estera filotedesca crispina, vide accrescersi le esportazioni dei prodotti ortofrutticoli e del vino, mentre l’introduzione della coltura della barbabietola da zucchero incrementò lo sviluppo delle raffinerie nella pianura padana.
Per ciascuna di queste azioni la critica storiografica non ha mancato di evidenziare anche i risvolti negativi: - non ostacolare l’emigrazione significava anche servirsene, un po’ cinicamente, senza tener conto del disagio arrecato a interi strati sociali costretti a sradicarsi dalla propria terra (specie dal Sud, dove il cosmopolitismo era certamente ben lontano dal diffondersi); - favorire unicamente l’industria pesante a discapito di quella agro-manifatturiera era, poi, una tipica visione industrialista che non teneva in debito conto l’economia del Mezzogiorno, che avrebbe necessitato di trasformazioni più profonde del solo acquedotto pugliese; infine la nazionalizzazione delle assicurazioni consentì abnormi speculazioni da parte di chi ne deteneva le azioni.
Innegabile è, invece, la bontà del miglioramento della legislazione sul lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore) e di età (12 anni).
Nel dicembre del 1909 divenne presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici. A lui succedette Luigi Luzzatti.
Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che comunque votò a favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l’introduzione del suffragio universale maschile, progetti di considerevole valenza “sociale” ed entrambi immediatamente realizzati.
Nel settembre del 1911 Giolitti, premuto dalle spinte nazionaliste (il movimento si era costituito come vero e proprio Partito Nazionalista Italiano nel primo congresso di Firenze nel 1910) diede tuttavia inizio alla guerra di Libia; il conflitto ebbe notevoli ripercussioni anche in politica interna, dividendo il Partito Socialista e allontanandolo dal governo in maniera irrimediabile.
Giolitti aveva comunque capito la pressione che saliva dall’inaffidabile e contraddittorio movimento socialista ed andò quindi a cercare gli alleati che gli offriva la Chiesa di papa Pio X che, preoccupato del pericolo sovversivo, aveva attenuato il non expedit consentendo ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche del 1909 assicurando in questo modo il rafforzamento del governo Giolitti, che da questo momento iniziò il suo cammino verso la destra conservatrice, la quale avrebbe celebrato nel 1910, a Firenze, la nascita del Partito Nazionalista Italiano, che chiedeva a gran voce l’ingresso della “Terza Italia” nella gara coloniale delle grandi potenze europee.
La guerra italo-turca, realizzata con l’appoggio diplomatico delle potenze dell’Intesa, voluta dall’opinione pubblica italiana e dalla borghesia industriale interessata alla produzione bellica, rappresenta l’inizio della fine dell’età giolittiana. Alle delusioni seguite alla sanguinosa conquista di quello “scatolone di sabbia”, come diceva il socialista Salvemini, si aggiunse la preoccupazione per la ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel bilancio dello Stato.
Dopo il congresso socialista di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto l’espulsione dell’ala moderata e il prevalere della corrente massimalista, guidata da un giovane anarco-sindacalista, Benito Mussolini, divenuto direttore dell’“Avanti!” (il quotidiano del partito socialista), tutto stava ad indicare che la lotta politica si stava acutizzando tra l’estremismo di sinistra e una borghesia passata alle tesi dell’imperialismo.
Furono forse queste preoccupazioni che nell’imminenza delle elezioni del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca di un più vasto consenso di massa con l’istituzione del suffragio universale maschile e soprattutto con il patto Gentiloni1) con i cattolici in funzione antisocialista.
I risultati elettorali sembrarono premiare la politica giolittiana, ma era un’illusione: ormai lo scontro tra la destra e la sinistra si combatteva nelle strade come dimostreranno i disordini della “Settimana rossa” nel giugno del 1914, guidata dal socialista Mussolini, dal repubblicano Pietro Nenni, dall’anarchico Errico Malatesta.
Questa situazione sociale ingestibile politicamente convinse Giolitti, già dimessosi nel marzo del 1914, di aver visto giusto nella sua decisione di abbandonare almeno temporaneamente la vita politica. Giolitti in realtà si era dimesso designando come suo successore il conservatore Antonio Salandra, calcolando che dal fallimento della politica di questi egli sarebbe potuto tornare al governo da sinistra con un programma di più avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò sbagliato: ormai non era più possibile alcuna mediazione tra capitale e lavoro.
L’inizio della fine della cosiddetta età giolittiana fu l’arrivo al governo di Antonio Salandra nel 1914. Questi succedette a Giolitti accordandosi con lui, ma presto riuscì a rendersi politicamente autonomo, sfruttando la nuova situazione creatasi dopo la firma (all’insaputa del Parlamento e dei partiti politici, a maggioranza pacifisti), nell’aprile del 1915, del cosiddetto Patto di Londra.
Quando nel maggio 1915 Salandra vincolò la sua prosecuzione al governo all’accettazione da parte del Parlamento della volontà interventista del governo, del re e delle gerarchie dell’esercito (contro le Potenze centrali e gli accordi di alleanza militare che l’Italia aveva stipulato con essi), Giolitti si trovò ad essere il capo della maggioranza neutralista della Camera.
Fu in quel contesto che si ebbe un gesto di grande valenza simbolica anche se di scarsi effetti pratici: un numero di deputati superiore alla maggioranza dell’Assemblea lasciò il suo biglietto da visita nell’anticamera dell’abitazione romana dell’ex primo ministro a testimoniare il suo appoggio.
Nonostante questo, il giorno dopo il Parlamento si piegò al diktat del re, del governo e dell’esercito. Per alcuni storici questo momento segna in Italia la fine dell’epoca liberale e l’inizio di un’epoca di governi autoritari e anti-parlamentari che sfocerà nel ventennio fascista di Benito Mussolini. Salandra, reincaricato dal Re, fece uscire l’Italia dalla neutralità, per cui Giolitti si batteva, e la portò nella prima guerra mondiale.
Dopo la conclusione della grande guerra si ebbe l’ultima permanenza al governo di Giolitti, che iniziò nel giugno 1920 durante il cosiddetto biennio rosso (1919-1920): lo Stato liberale, ormai in agonia, richiamò il vecchio statista, ancora di fresche energie, ad affrontare e risolvere la questione fiumana. Con il trattato di Rapallo Giolitti liquidò la questione di Fiume, dichiarata città libera, e ricorrendo all’esercito costrinse Gabriele D’Annunzio, che l’aveva teatralmente occupata, a lasciare la città.
La stessa energia Giolitti cercò di applicare nella politica interna, ma qui la situazione era degenerata sin dal suo ultimo ministero nel 1914.
Per risanare il bilancio dello Stato, in grave passivo per le spese di guerra, aumentò il carico fiscale sui ceti più abbienti introducendo imposte straordinarie sui profitti di guerra e addirittura fece varare una legge sulla nominatività dei titoli azionari, che cessarono di essere parzialmente esenti dall’imposizione fiscale. Si trattava di misure per l’epoca molto coraggiose nella tutela dei meno abbienti, che però da una parte convinsero i liberali borghesi che Giolitti era ormai schierato dalla parte dei “sovversivi”, mentre dall’altra questi ultimi continuavano comunque a considerarlo dalla parte dei “padroni”.
Giolitti risolse con successo l’occupazione delle fabbriche dell’agosto-settembre 1920 - l’inizio del biennio rosso - adottando il suo sistema di non intervento diretto dello Stato, il quale si limitava a garantire l’ordine pubblico. Ciò però non fece diminuire la paura del ceto medio deciso ormai ad affidarsi, per la sua difesa dai “bolscevichi”, allo squadrismo fascista. Per porre freno alle frequenti agitazioni socialiste, Giolitti non esitò ad avallare le azioni violente delle squadre fasciste, illudendosi di poter riassorbirli all’interno del sistema democratico dopo essersene servito.
Nelle elezioni politiche del 1921, Giolitti promosse la nascita del Blocco Nazionale, una coalizione di destra estesa a nazionalisti e fascisti, nella speranza di ridurre i due blocchi contrapposti socialisti e cattolici che impedivano la formazione di qualsiasi governo efficiente.
Egli si illudeva, secondo il suo credo politico, di poter portare nell’alveo del moderatismo liberale il fascismo; così non fu, anzi la sua manovra elettorale, mentre aveva lasciato inalterata la forza contrapposta di socialisti e cattolici, aveva contribuito a dare una patina di rispettabilità al movimento fascista che, con i 35 deputati eletti al Parlamento italiano, iniziava la sua marcia verso la conquista del potere.
Dopo il 1924, Giolitti svolse un ruolo di opposizione parlamentare al fascismo, benché il Parlamento fosse ormai sotto il controllo di Mussolini. Divenuto antifascista, si oppose a numerosi provvedimenti anti-liberali e anti-democratici. L’anziano statista infine morì nel 1928.
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L’unità d’Italia era stata raggiunta nel 1861, ma il paese era ancora fortemente agricolo e arretrato, soprattutto nel Sud. Nelle regioni del Nord, però, si stavano creando le condizioni per una forte crescita industriale, grazie anche alla politica economica di Giolitti, che favoriva lo sviluppo delle infrastrutture e dell’industria.
Le industrie tessili, siderurgiche e meccaniche furono tra le principali protagoniste della crescita economica del periodo. Le aree di Milano, Torino e Genova, il cosiddetto “triangolo industriale”, divennero i centri principali di questa espansione. Le industrie tessili del Biellese e del Varesotto sfruttarono l’abbondanza di manodopera a basso costo e di energia idroelettrica. Parallelamente, l’industria siderurgica crebbe in aree come Terni, dove l’acciaio divenne cruciale per la produzione di armamenti e per le infrastrutture ferroviarie.
Giolitti promosse politiche economiche favorevoli all’industria, utilizzando una combinazione di interventismo statale e liberalismo economico. Lo Stato investì pesantemente nelle infrastrutture, costruendo nuove ferrovie, strade e porti, il che facilitò il trasporto delle merci e l’integrazione del mercato interno. Inoltre, la creazione di una rete elettrica nazionale favorì lo sviluppo delle industrie elettromeccaniche e chimiche, con aziende come la Montecatini, attiva nella produzione di fertilizzanti e prodotti chimici.
Nonostante lo sviluppo industriale nel Nord, il Sud Italia rimase prevalentemente agricolo e arretrato. Le politiche di Giolitti cercarono di limitare le tensioni sociali con interventi come la creazione di opere pubbliche nel Meridione e il sostegno ai lavoratori attraverso riforme sociali, ma il divario tra Nord e Sud continuò a crescere. Nel Meridione, la modernizzazione industriale fu lenta, e molti contadini emigrarono verso le Americhe in cerca di migliori condizioni di vita.
Un aspetto centrale dell’età giolittiana fu l’intensificarsi del rapporto tra Stato e industria. Lo Stato intervenne sempre più come regolatore e finanziatore, soprattutto nelle industrie strategiche come quella ferroviaria e siderurgica. Il capitalismo italiano si sviluppò quindi con una forte componente statale, e la nascita di grandi imprese fu spesso sostenuta dalle commesse pubbliche o da aiuti statali.
L’industrializzazione accelerata provocò, però, anche forti tensioni sociali. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche erano spesso dure, con orari estenuanti e salari bassi. Questo favorì la crescita del movimento operaio, che chiedeva migliori condizioni di vita e di lavoro. Durante l’età giolittiana, il governo cercò di mantenere un equilibrio tra le esigenze del mondo industriale e le rivendicazioni dei lavoratori, adottando una politica di “neutralità attiva”, non reprimendo violentemente gli scioperi, ma cercando soluzioni negoziate.
Fondata a Torino da Giovanni Agnelli e altri investitori, la FIAT divenne rapidamente uno dei pilastri dell’industria automobilistica italiana. Durante l’età giolittiana, FIAT crebbe grazie alla crescente domanda di automobili e forniture militari. La produzione si sviluppò anche grazie alle politiche di espansione infrastrutturale e al supporto statale per l’industria automobilistica.
Fondata inizialmente come azienda mineraria per l’estrazione di rame e piombo, Montecatini si trasformò durante l’età giolittiana in una delle principali industrie chimiche italiane. La società si specializzò nella produzione di fertilizzanti chimici, che divennero cruciali per sostenere la modernizzazione dell’agricoltura italiana. La sua espansione fu favorita dalla crescente richiesta di prodotti chimici e dal supporto governativo per il settore agricolo.
L’Ilva, fondata come azienda siderurgica con sede principale a Genova, divenne una delle principali industrie italiane dell’acciaio. Svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo delle infrastrutture del paese, come le ferrovie e le navi. L’Ilva beneficiò di investimenti statali e delle politiche protezionistiche di Giolitti, che favorivano la crescita delle industrie strategiche come quella siderurgica.
La società Ansaldo, con sede a Genova, nacque nel XIX secolo, ma ebbe un forte sviluppo durante l’età giolittiana. Attiva nel settore meccanico e della costruzione di navi e locomotive, divenne una delle aziende più importanti nel campo della produzione di armamenti e nell’ingegneria pesante. Anche in questo caso, il supporto statale fu cruciale, soprattutto per quanto riguarda le forniture militari.
Fondata da Giovanni Battista Pirelli a Milano, l’azienda si specializzò inizialmente nella produzione di gomma e cavi. Durante l’età giolittiana, Pirelli divenne una delle principali industrie di pneumatici in Europa, beneficiando della crescente espansione del settore automobilistico e dell’industria elettrica. La produzione di cavi elettrici e pneumatici sostenne la crescente domanda interna e le esportazioni.
La Società Italiana Ernesto Breda di Milano, fondata nel 1886, fu un’altra industria meccanica che ebbe un notevole sviluppo durante l’età giolittiana. L’azienda si specializzò nella costruzione di macchine industriali, locomotive e materiale ferroviario. Anche Breda, come Ansaldo e Ilva, beneficiò della politica di modernizzazione infrastrutturale del governo Giolitti.
La Edison fu una delle prime aziende italiane nel settore della produzione di energia elettrica. Fondata nel 1884 a Milano, si espanse notevolmente durante l’età giolittiana, grazie alla crescente domanda di energia per le industrie e le infrastrutture. L’introduzione di nuove centrali idroelettriche nelle Alpi favorì lo sviluppo del settore elettrotecnico e chimico.
Alfa Romeo, fondata a Milano nel 1910, si specializzò nella produzione di automobili di lusso e da corsa. Anche se ebbe un impatto maggiore dopo la Prima guerra mondiale, la sua fondazione durante l’età giolittiana rappresenta un esempio della crescente importanza dell’industria automobilistica italiana.
Le Fonderie Riunite di Torino, attive nel settore della metallurgia, contribuirono allo sviluppo dell’industria siderurgica italiana, specializzandosi nella produzione di ghisa e acciaio. Queste fonderie furono strettamente collegate con la crescita delle industrie meccaniche e automobilistiche.
Fondata a Torino da Vincenzo Lancia, la Lancia fu una delle aziende automobilistiche più innovative del periodo. La sua fondazione segna un ulteriore sviluppo dell’industria automobilistica italiana, che si stava affermando sempre più come un settore strategico e dinamico.
Il Patto Gentiloni (1913) fu un accordo informale tra Giolitti e l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, rappresentata da Vincenzo Ottorino Gentiloni, per ottenere il sostegno elettorale dei cattolici nelle elezioni politiche del 1913.
Fino a quel momento, i cattolici erano stati in larga parte esclusi o autoesclusi dalla vita politica italiana a causa del cosiddetto “non expedit”, un decreto emanato dal Papa Pio IX nel 1874 che scoraggiava i cattolici dal partecipare attivamente alla politica del nuovo Stato italiano, nato dall’unità d’Italia e percepito come ostile alla Chiesa. Tuttavia, con il tempo, la situazione si era evoluta, e sotto Papa Pio X (1903-1914) ci fu un progressivo allentamento di questa restrizione, soprattutto di fronte alla crescente minaccia rappresentata dai socialisti e dai laici.
Giolitti, che era un abile politico e voleva rafforzare la sua maggioranza, cercò di ottenere il sostegno dei cattolici per le elezioni del 1913. Attraverso il Patto Gentiloni, i cattolici furono invitati a votare per i candidati liberali che si impegnavano a sostenere alcune delle principali istanze cattoliche, come:
In cambio di questo sostegno, l’Unione Elettorale Cattolica invitò i cattolici a votare per quei candidati liberali che accettavano di rispettare queste posizioni. Sebbene Giolitti non avesse mai riconosciuto ufficialmente l’esistenza del patto, è chiaro che esso fu determinante per il successo dei liberali nelle elezioni del 1913, specialmente nelle aree rurali e nel Sud Italia, dove il voto cattolico era forte.