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volume_3:imperialismo:grande_depressione_1873-1895

Grande depressione (1873-1895)

La grande depressione del XIX secolo, detta anche lunga depressione, fu una crisi economica – la prima a essere chiamata tale per vastità di portata ed estensione temporale in cui dispiegò i suoi effetti – che ebbe inizio a Vienna nel 1873 e si propagò anche negli Stati Uniti d’America durante la presidenza di Ulysses S. Grant, dopo oltre vent’anni di incessante crescita economica determinata dalla seconda rivoluzione industriale e si protrasse sino alla fine del XIX secolo. Il mondo sviluppato conobbe prima una crisi agraria, cui si aggiunse poi una parallela crisi industriale, con forti riduzioni della domanda, profitti marginali calanti e scarsa circolazione monetaria (che comunque non riguardò tutti i Paesi), anche se il prodotto interno lordo (PIL) complessivo si mantenne in crescita costante, senza mostrare cioè caratteri puramente recessivi. Una forte e perdurante deflazione, a livelli strutturali, durante l’intero ventennio innescò massicci licenziamenti e riduzioni salariali, repressioni ai danni dei sindacati e vasti movimenti migratori dalle campagne alle città e dalle aree meno sviluppate a quelle economicamente più forti del mondo.

Descrizione

La crisi ebbe avvio in Europa con una forte ondata di vendite sulla piazza borsistica di Vienna l’8 maggio 1873, per il timore generalizzato della perdita dei risparmi da parte degli investitori. Negli Stati Uniti d’America invece, il 18 settembre successivo, il fallimento (a causa di ingenti prestiti, divenuti irrecuperabili, investiti nel settore ferroviario, in particolare nella Northern Pacific Railway) della grande banca newyorkese Jay Cooke & Company, uno dei maggiori istituti statunitensi, diede il via ad un’ondata di panico (panico del 1873) che si diffuse nell’economia statunitense e poi in tutti gli altri paesi industrializzati.

Nel giro di pochi mesi la produzione industriale degli Stati Uniti cadde di un terzo per la mancanza di acquirenti mentre aumentava a dismisura la disoccupazione. Presto la crisi si diffuse anche in Gran Bretagna, Francia e Germania.

La carenza sul lato della domanda provocò un improvviso e rovinoso calo dei prezzi (deflazione che interessò l’intero ventennio di crisi), con una quantità sempre crescente di scorte di magazzino invendute che indussero i produttori ad avviare massicci licenziamenti nel settore industriale.

Nel settore agricolo l’ingresso ingente di merci statunitensi in Europa (favorito dai miglioramenti nel settore dei trasporti, col passaggio dalla vela al vapore), a seguito di annate agricole negative, provocò una caduta dei prezzi che mandò in rovina moltissimi piccoli produttori (vissuti fino ad allora all’interno di un mercato regionale caratterizzato da bassi profitti e tecnologicamente arretrato rispetto a Gran Bretagna e Stati Uniti) e innescò vasti movimenti migratori tra paesi soprattutto in partenza dalle aree economicamente più deboli (paesi periferici europei, tra cui Italia, Irlanda, Spagna, Europa orientale), e dalla campagna verso la città, determinando un forte aumento dell’inurbamento. Nel contempo la crisi del settore agricolo avviò esperimenti di specializzazione delle colture e in alcuni casi l’evoluzione in senso capitalistico delle aziende agricole soprattutto in Germania (barbabietola), Francia (vitivinicoltura) e in Italia settentrionale (Pianura padana).

La crisi di sovrapproduzione si manifestò anche come conseguenza dell’ascesa degli Stati Uniti e dell’Impero tedesco come nuove potenze mondiali. Le riparazioni imposte dalla Germania alla Francia a seguito della guerra franco-prussiana (ammontanti a 6 miliardi di franchi in oro) furono reinvestite al fine di alimentare un processo di rafforzamento del settore siderurgico. Parimenti negli Stati Uniti si avviava una forte espansione del settore ferroviario e un ingrossamento della bolla finanziaria legata al settore.

Fu la prima manifestazione di una crisi economica moderna, evidenziando la ciclicità dei processi economici, caratterizzati da fasi espansive e conseguenti fasi depressive. Mentre infatti le crisi dell’Ancien Régime si manifestavano sotto forma di carestie (quindi crisi da sottoproduzione), il nuovo tipo di crisi che il mondo andava sperimentando si configurava come crisi di sovrapproduzione.

Crisi agraria

Nel settore agricolo la crisi si manifestò come una forte eccedenza di offerta sulla domanda ovvero un aumento della produzione non sostenuto da un’adeguata domanda e l’emergere di nuove potenze nella produzione agricola, come Stati Uniti, Australia e Argentina. La caduta dei prezzi e la forte concorrenza ridussero in rovina migliaia di contadini e si accrebbe in maniera preoccupante la dipendenza europea dalla produzione agricola d’oltreoceano.

Crisi industriale

Le cause che portarono alla crisi industriale sono del tutto simili a quelle della crisi agricola: le industrie cioè producevano molto più di quanto il mercato potesse assorbire sotto forma di consumi. L’indice più vistoso della crisi fu la caduta dei prezzi. La crisi può essere spiegata per la concomitanza di tre fattori:

  • aumento del progresso tecnologico, che favorì un incremento della produzione di beni;
  • aumento del numero di paesi industrializzati, e in particolare ingresso di nuovi attori economici nel mercato globale (Stati Uniti e Germania guglielmina);
  • imposizione di bassi salari, con conseguente riduzione dei redditi e crisi sul lato della domanda aggregata.

La situazione peggiorò ulteriormente allorché si tentò di rispondere alla caduta della produzione e dei prezzi con ulteriori riduzioni salariali. Particolarmente violente furono anche le repressioni ai danni del movimento sindacale (la National Labour Union statunitense scomparve). I tagli dei salari provocarono nuove cadute dei consumi e conseguenti ulteriori riduzioni dei prezzi, conducendo a una situazione di perdurante deflazione per l’intero ventennio.

Effetti

Le risposte che le imprese diedero per far fronte agli squilibri della crisi originarono una serie di processi che mutarono il volto dell’economia. Si apriva una nuova fase di capitalismo, il cosiddetto capitalismo organizzato, cioè un capitalismo guidato e cosciente della necessità di superare il carattere spontaneo dei processi economici. Questa nuova via quindi contraddiceva il credo capitalista che aveva dominato il mercato fino a quel momento: infatti iniziò una fase in cui gli imprenditori accettavano l’intervento dello Stato nell’economia.

In primo luogo, di fronte alla caduta generalizzata dei prezzi e all’inasprirsi della concorrenza, l’immediata e quasi istintiva risposta dei governi fu l’innalzamento di barriere doganali al fine di annullare o per lo meno limitare l’afflusso di merci estere. Contemporaneamente lo Stato iniziò ad assumere un nuovo ruolo (interventismo), divenendo esso stesso consumatore dei prodotti nazionali (tramite commesse pubbliche) e facendo dello sviluppo industriale uno dei compiti politici di primaria importanza.

La seconda grande conseguenza della crisi fu la creazione di monopoli (trust), tanto privati, legati alle grandi corporation in seguito alla fusione di gruppi più piccoli, quanto pubblici. Tale fenomeno fu generato dalla volontà di ridurre la forte concorrenza e quindi mantenere alti i livelli dei prezzi per mobilitare nuovi capitali per finanziare la ripresa. La crescita del potere delle imprese monopolistiche si tradusse nella crescita delle dimensioni delle fabbriche e del numero degli addetti, innescando mutamenti profondi nelle strutture produttive dei paesi.

La tendenza alla concentrazione si manifestò inoltre con un mutato rapporto tra industria e banca. Il grande bisogno di capitali necessari per la ristrutturazione rendeva necessario per le imprese attingere fondi dal risparmio di massa. Nacque così la “banca mista”, così chiamata perché funzionava sia da banca commerciale (raccogliendo i risparmi della popolazione) sia da banca d’affari (investendo nelle imprese).

La conseguenza politica della Crisi fu il colonialismo. Infatti le imprese capitalistiche credettero ingenuamente che una risposta alla crisi di sovrapproduzione potesse essere quella di vendere ai paesi non ancora industrializzati. In realtà i paesi colonizzati non si rivelarono dei mercati capaci di compensare il gap dell’offerta, piuttosto fornirono materie prime e manodopera a basso prezzo, ma non poterono costituire dei mercati significativamente capienti da alimentare un rialzo dei prezzi.

Bibliografia

Peppino Ortoleva, Marco Revelli, L’età delle rivoluzioni. L’Ottocento, Bruno Mondadori, Milano Roberto Balzani, Alberto De Bernardi, Storia del mondo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2003, ISBN 88-424-9824-6

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